“Fumina” di Giulio Iovine

Almeno una volta al mese mi tocca questa specie di calvario. Agata dice che non è colpa sua, che lei si sforza; ma non riesco a non sospettare che questo scegliere sempre una zona diversa della città quando dobbiamo uscire a pranzo sia fatto apposta. Se andassimo sempre nello stesso posto, la gente avrebbe imparato la lezione e non ci sarebbero morti. Ma questo cambiar sempre ristorante, o quartiere, o gelataio… è come se volesse prendere le persone di sorpresa.

Oggi avevo esami. Dieci studenti li ho fatti in mattinata, me ne aspettano venti nel pomeriggio, sicché all’ora di pranzo ho decisamente bisogno di una pausa. Purtroppo ci si è messa di mezzo lei. Adesso abita col suo fidanzato vicino all’università, e mi ha scritto:

Age, scusa per la sorpresa, ma ti va di accompagnarmi al greco?

Per un attimo m’illudo che saremo in tre – Leo riesce sempre a sedarla – e rispondo:

Ma da quando a Leo piace il greco?

E lei:

Lui oggi va a pranzo col suo bassista, una roba di lavoro, quindi ne approfitto. Se ci sei, ci facciamo una scorpacciata di agnello.

Agata è un’amica e non mi piace dirle di no. Ci troviamo fuori dal dipartimento, vicino al bar. Il greco che intende lei è a mezzo chilometro da qui e così cominciamo a camminare, chiacchierando.

– Non ti dovevi fermare in posta, Agenore?

Il cuore mi salta un battito.

– Sì, ma non è urgente, Agatina. Posso farlo dopo pranzo.

– Ma sarà tutto chiuso. Di solito stanno aperti solo fino all’una.

– Vabbè, se troviamo un ufficio…

– Ma è lì davanti, non vedi? Te lo dicevo apposta.

– Ah. Giusto. Va bene, spero non ci sia fila. Mi aspetti qui?

– Ma no, perché? Vengo anch’io che ti faccio compagnia.

Fa’ che il posto sia vuoto fa’ che il posto sia vuoto fa’ che il posto sia vuoto OH MENO MALE siamo solo in tre o quattro. Prendo il numero e ci sediamo.

– Cosa devi spedire?

– Le bozze corrette di due articoli.

– Ma Agenore, ancora fai col cartaceo…? Sei senza speranza.

Davanti a noi in fila c’è una vecchina piccola, compatta nel suo cappotto, con il basco in testa e due occhiali tondi ed enormi.

– No, ripete la vecchina – no, ‘spetti bene, non capisco mica, ha detto Bonaccini là che siete aperti sempre

L’impiegato tenta di arginarla:

– Tutte le mattine, signora, ma il pomeriggio solo le Poste Centrali.

– E no perché io devo mandare questa cosa, capisce, ce la mando a mio figlio, cosa ci dico se non arriva…

– Ma signora, non c’è problema. Adesso gliela mandiamo, questa lettera.

Non è una lettera, – insiste la vecchina, – ce lo dico anche nel biglietto, è una lista perché mio figlio vende i mobili e noi abbiamo la casa su a Gaggio che…

– Va bene, va bene. Però mi serve l’indirizzo.

– Eh?

– L’indirizzo.

– Eh?

– Bisogna che lei scriva qui l’indirizzo. Sulla busta.

– Ma perché, se sono dementi, le lasciano uscire da sole…? – borbotta Agata.

La vecchina sbatte il pugno sul ripiano, e poi esclama:

– Rieti!

– Rieti è la città dove vive suo figlio?

No che non ci vive, ci abita soltanto, perché son due mesi che lui li ha il mobilificio che deve svuotarlo perché si trasf…

Agata scatta in piedi e con uno spintone manda la vecchina a gambe all’aria. Come una larva capovolta, la vedo agitarsi nel cappotto, le gambe che scalciano.

– E questa idiota è sistemata, – commenta Agata.

L’impiegato la guarda con orrore.

– Signorina, ma lei è pazza. Lei ha ammazzato questa povera signora.

– Macché ammazzato, – ribatte Agata. – L’ho solo levata dai coglioni. Se aspettavamo lei, campacavallo. Il mio amico qui deve spedire della roba. Agenore, perché te ne vai? Vieni, il signore ti spedisce tutto.

Mi avvicino al bancone, piangendo interiormente, e ci appoggio le buste e i moduli. L’impiegato comincia a gridare:

– Io la denuncio. Chiamo la polizia. Ma come l’è venuto in mente – qualcuno aiuti la signora, non vedete che è lì che si contor…

Si blocca. Sgrana gli occhi. Si porta le mani alla gola. Diventa paonazzo.

– Spedisci queste due cristo di buste in silenzio, ordina Agata.

Il collo stretto da una morsa invisibile, l’impiegato prende le mie buste, verifica gli indirizzi sui moduli, le pesa, mi indica a gesti quant’è l’affrancatura perché non riesce a parlare, prende le banconote, mi dà il resto. Agata schiocca le dita e lui recupera il respiro, tossendo come un dannato. La vecchina mugola, ancora a gambe all’aria.

– Vieni Agenore, usciamo. Odio questi ritardati alle poste.

Varchiamo la porta scorrevole e ci ritroviamo di nuovo sotto il portico.

– Mi dispiace di averti messo in imbarazzo, – continua Agata, – ma lo sai che sono fumina. Come dicono al mio paese.

– Certo che lo so, ti conosco da vent’anni, – rispondo gemendo.

Svoltiamo in una strada piena di gente. Davanti a noi ci sono diverse coppie di anziani che camminano piano e col bastone. Un ragazzino saltella intorno a quattro sue coetanee a braccetto, occupando tutto il marciapiede e costringendoci a rallentare.

– A volte davvero mi sembra di essere l’unica rimasta al mondo a usare il cervello, continua Agatina. – I parenti di quella vecchiaccia devono essere degli irresponsabili per lasciarla uscire di casa nello stato di demenza in cui è. I parenti o l’istituzione che se la smazza al momento. Così non si fa altro che creare disagi a chi poi ci deve avere a che fare. Che, detto come va detto, non è sempre all’altezza della situazione, perché quel water in polistirolo dell’impiegato alle poste anziché assecondare la babbiona poteva sistemare la faccenda con due sberle, vedrai che così stava zitta e noi perdevamo meno tempo. Non ti credere, Age, lo dico anche per la vecchina che si sentirà umiliata a fare queste figuracce appena mette piede fuori di casa, e oh insomma via dalle palle.

Fa un gesto rabbioso, come se scacciasse una mosca, e una coppia di anziani davanti a noi viene sparata verso l’alto come un tappo di spumante. Volano fino al soffitto del portico, sbattono la testa, vengono spiaccicati sulla parete a sinistra. La signora manda urla strazianti. Un’altra coppia ancora più in là viene sputata in avanti, e i due atterrano a pelle di leopardo.

– Questi vecchi, – sibila Agata. – Ti pare che occupano tutto il marciapiede? Se non sai più camminare prenditi una dannata carrozzina. E vai sulla ciclabile.

– La strada è anche loro, Agatina, – protesto sottovoce.

– Il cazzo, – risponde lei, – la strada è di chi ci cammina in maniera sensata. Ricorda Verga. La roba non è di chi l’ha, ma di chi la sa tenere.

Accelera, cercando di superare le ragazzine a braccetto tra loro, uniche rimaste sul marciapiede ora che abbiamo tolto di mezzo gli anziani. Il ragazzo che le accompagna sta camminando all’indietro davanti a loro, facendo il clown per cercare di impressionarle. Agata abbatte con un calcio quella davanti a lei e ci cammina sopra, facendola urlare come una vitellina. Le altre scivolano verso il muro e ci si spalmano come formaggio. Il loro coetaneo mi prende per il bavero (a me…?), chiedendo che cazzo succede.

– Sbrigati Agenore, che ho prenotato, – mi chiama Agata già avanti di metri e metri, mentre al ragazzino escono rivoli di sangue da bocca e orecchie. Si affloscia per terra. Corro dietro ad Agata e la raggiungo. Per fortuna ora si è calmata e sta già parlando d’altro, e gli ultimi cinque minuti di camminata prima del ristorante greco passano senza che nessun altro si faccia male.

Veniamo fatti entrare dal cameriere in una vasta sala, ancora non del tutto piena. Ci fanno accomodare al tavolo. Racconto ad Agata qualche aneddoto stupido dei miei studenti agli esami quella mattina e lei ride molto. Prego di riuscire a tenerla di buon umore per tutto il pranzo. Ma ci si mette un cameriere, che arriva con la faccia di chi vuole prendere un razzo in culo e non lo sa.

– Oh che bella signorina, – fa, untuoso, – magari vi metto in tavoli separati e mando la collega per il signore?

Strizza l’occhio. Faccio finta di ridere a questa facezia da bagnino romagnolo (il tizio è greco, vedi che il mare rincoglionisce dappertutto) e fisso Agata con intenzione, come a dire: guarda questo com’è simpatico. Agata inarca un sopracciglio, ma lascia correre. Ordiniamo e torniamo a chiacchierare; ma si capisce che Agatina non è tranquilla, si è incrinato qualcosa. Il cameriere si rifà vivo per portare da bere, ma ha sbagliato le bevande: io volevo una coca zero, Agatina un ouzo e lui è riuscito a portarci due calici di rosso. Si scusa e li tira via, poi dieci minuti dopo li riporta. Glielo facciamo notare, ma stavolta Agata non gliela passa. Uno dei due bicchieri schizza verso il muro e si infrange.

– Un ouzo e una coca zero, – ripete Agata scandendo le parole.

Dentro di me comincio a pregare.

– A proposito, Age, mi dici da dove hai preso quella bellissima poesia che hai messo su facebook oggi? Non l’ho trovata neanche su google.

– L’ho presa da un’antologia di poesia cinese, a cura di un mio collega che è nel ramo da anni.

– Ma pensa, quindi è cinese?

– Sì. Sono contento che ti sia piaciuta.

– Però su facebook hai messo solo quattro versi. Come continua?

– Guarda, ce l’ho qui.

Tiro fuori dallo zaino il libricino.

– È a pagina 43, ho lasciato il segno. Ecco, è questa: sulle pendici del monte, nei miei occhi la luna, anzi due lune…

In quel momento passa il cameriere e con un abile gioco di mano mi scippa il libro.

– Non si confonde il piacere del cibo con quello della lettura, – esclama ridendo. Io ci resto malissimo, ma abbozzo. Agata serra le labbra e comincia a respirare col naso. Il cameriere mi restituisce il libro, si scusa dello scherzo, commenta come sia inopportuno tirar fuori un libro con una così bella ragazza al tavolo. Io mi affretto a rimettere il libro nello zaino e lui se ne va. Agata non riesce quasi più a trattenersi, le metto una mano sul polso.

– Ma è impazzito?

– Agatina, ti prego.

– Io gli dico qualcosa.

– No, Agata, non è necessario, è un buontempone.

– Che buontempone, è uno stronzo.

Arriva il cibo, finalmente. Il cameriere mi mette davanti un piatto con insalata e suvlaki, ma immediatamente lo porta via.

– Mi scusi, mi sono accorto che non è cotto del tutto. Lo riporto in cucina, mi dia cinque minuti.

– Lasci qui quel piatto, esclama Agata.

Cala il silenzio sul ristorante.

– Signorina, mi perdoni ma il piatto non è cotto, è una questione di qualità. Se il signore ha pazienza cinque minuti…

Cinque secondi dopo la testa del cameriere si è rivoltata all’indietro e il collo ha fatto crack. Il corpo è caduto a terra come un sacco pieno di noci.

Gli altri avventori ci guardano inorriditi. Agata ha il braccio alzato, la bocca contratta, i denti serrati, e gli occhi che lampeggiano di una luce strana, epilettica.

– E se vi sognate di rompere anche voi, vi do il resto, proclama.

Gli avventori si rimettono a mangiare, silenziosi come tombe. A poco a poco ricomincia un timido brusio. Finiamo il pasto con calma. Agatina è molto nervosa. Provo a leggerle altre poesie cinesi, e se non altro le piacciono. Le presto il volume, dice che piaceranno anche a Leo, io ne sono contento (spesso scrive canzoni su testi orientali). Tenta che ti ritenta, riesco a distrarla e quando arriva il dessert torniamo a ridere, mentre il cadavere viene discretamente portato via.

– Comunque ne valeva la pena, vero? Ho mangiato benissimo.

– Anch’io! Soprattutto la feta.

Ci avviciniamo alla cassa. Metà del personale, quando Agata si appoggia al bancone, si ritira dalla parte opposta della sala. Evidentemente hanno fatto qualche telefonata, o si sono ricordati chi è lei, e adesso si rendono conto che non è il caso di disturbare. Paghiamo e usciamo.

– Quando devi tornare per gli esami?

– Ricomincio alle tre.

– Dai, mi fai compagnia per un gelato?

– Certo. Andiamo alla solita gelateria?

– No, voglio provarne una diversa. Quella là in fondo, vedi? Le recensioni sono buone.

Oh Cristo.

– Ma sei sicura? Magari non è buono.

– Lo scopriremo solo vivendo.

– Va bene.

Entriamo. La gelateria è vuota. Al bancone c’è una gelataia dal seno che sgorga fuori dal camice e l’aria irritata. Ci avviciniamo alla vetrina dei gelati.

– Oddio, Age guarda! Hanno il mascarpone. Signora, possiamo…

– AAAAAH SHCUS.

Perplessi, ci voltiamo verso la signora che ha appena urlato.

Prima fate lo scontrino.

Andiamo verso di lei, che mette mano alla cassa.

– Due gelati da tre e venti.

– Stanno a tre e quaranta. Tre e venti è il frullato.

– Ma è scritto tre e venti.

– No, le cifre del frullato sono queste (indicando sul cartoncino), e queste del gelato.

– …va bene. Due gelati da tre e quaranta. Il mio con la panna.

– La panna va solo sul frullato.

– Ma qui c’è scritto: panna, più un euro e cinquanta.

– Sì, per il frullato. Per il gelato ci puoi mettere il gusto panna che è in più.

– E quant’è in più?

– Uno e cinquanta.

– …ok. Oh mannaggia, non ho contanti. Ha il POS?

– No.

– Ma come no, – esclama Agata, – ormai ce l’hanno praticamente tutti.

La gelataia si arrabbia moltissimo.

– Io non so di che tutti parli. Questa è la Sorbetteria Gianrico, qui il POS non c’è mai stato, non so proprio che dirle.

– Va bene, – intervengo, – va bene, ho i contanti, per stavolta fai offrire a me, Agatina?

E metto sul tavolo i soldi. Ci portiamo verso le vasche di gelato per farci servire.

– Vai tu, Age.

– Dunque, io comincerei con il cocco.

– Ma di che parla? Non esiste questo gusto.

Istintivamente rispondo, sbagliando:

– Ma come no. Sta in tutte le gelaterie.

– Questa è la Sorbetteria Gianrico, – attacca lei, – io non so di che gelaterie parli, e comunque non siamo noi, quelli sono gli altri, noi siamo la Sorbetteria Gianri…

Si blocca. Agata ha alzato il braccio. La gelataia, rigida come un palo, va a sbattere con la faccia due, tre, quattro volte contro il bancone di vetro, mandandolo in pezzi. Ne riemerge ogni volta con più pezzi di vetro nel cranio e una poltiglia di sangue su tutta la faccia. Alla quinta volta Agata la lascia andare a terra, e con un calcio spacca il vetro e comincia a farsi il gelato da sé.

– Il cocco non c’è, Age, ma c’è il fiordilatte. Ti va bene lo stesso?

– Sì, – mormoro, guardando il cadavere senza faccia della gelataia.

Agata mi mette infine in mano il gelato, e usciamo dalla gelateria.

– Age, ma ci esci ancora con quella piccoletta tettona con gli occhiali? Camilla, si chiamava?

– Sì, – ammetto, mentre alle nostre spalle, a un gesto perentorio di Agata, la gelateria va in fiamme ed esplode.

Aveva ragione: il mascarpone qui è molto buono. Era molto buono.

– Prima o poi me la dovrai presentare, allora.

Piuttosto faccio un omicidio–suicidio, penso col cucchiaio ancora in bocca.


L’Autore

Giulio Iovine è nato a Bologna il 10 luglio 1987. Laureato in lettere a Bologna, dottorato a Urbino, assegno di ricerca a Napoli, da febbraio 2021 ricercatore all’Università di Bologna, dove studia manoscritti antichi e insegna Papirologia.

Pubblica prose, meme, teatro e video sui suoi profili Facebook (Giulio Iovine, hashtag #dinosaurifuturi) e Instagram (@giulioprimodelmesozoico), nonché sul suo blog (Il Monte Analogo); racconti brevi su riviste (tra cui Crack, Digressioni, Dimensione cosmica, Inchiostro,Malgrado le mosche, Smezziamo); e romanzi su Wattpad (‘Francesco Storbini’).

È membro della redazione della rivista Spaghetti Writers (http://spaghettiwriters.it/).

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