“Alla linea” di Joseph Ponthus

Joseph Ponthus è nato nel 1978 e morto nel 2021. La sua vita fra queste parentesi trasparenti è un fantasma di carne e carta: la percorriamo attraverso le pagine del suo romanzo (o poema?) “Alla linea”.

Ponthus sceglie per la sua storia uno stile asciutto ed evocativo, che si serve di poche parole scelte con cura per dare vita a una narrazione in bilico fra orrore e meraviglia: ci parla della fabbrica come limbo spirituale e fisico fra un’idea di vita costretta nei ritagli di tempo e il lavoro, visto come obbligo, ipnosi, dilatazione irreale del tempo, perdita di senso.

La vita ha portato il suo io narrante alla fabbrica e al lavoro interinale attraverso studi umanistici e lavori in ambito sociale completamente avulsi dalle logiche del lavoro in uno stabilimento – per amore, per caso, per ragioni logistiche: proprio per questo riesce a cogliere l’enorme umanità e la bellezza che si cela nelle pieghe di una realtà industriale fatta di schemi e ripetizioni. Non è facile, non è gioioso il lavoro: non ci sono soddisfazioni e gratifiche ma solo fatica e incertezza. Alle domande di un mondo innaturalmente ottimista che ci insegna fin da piccoli la menzogna del lavoro come centro e fine ultimo dell’esistenza, la risposta di Ponthus è concisa e affilata: è un canto senza insegnamenti e senza illusioni, è il resoconto lirico e visionario della sua stessa esperienza di lavoratore interinale in uno stabilimento ittico e in un mattatoio.

Charles Demuth, My Egypt (1927)

Le sue sono fabbriche di carne e di sfinimento, in cui i muscoli dei lavoratori e del bestiame si dimostrano singolarmente affini nella quotidiana interazione fatta di liquami, sangue, linee rette, procedure.

Non la desolazione della fabbrica ma la sua paradossale bellezza

Joseph Ponthus, Alla linea

È un paradosso che l’uomo riesca a parlare di bellezza nella struttura spartana e utilmente orrenda di una fabbrica (o di un mattatoio), eppure cercare bellezza è l’unico modo per sopravvivere: l’importante è restare umani.

Ponthus non confeziona un pamphlet rivoluzionario, né declama una lode alla classe operaia: si limita a riflettere, nel tempo diluito del lavoro, per imprimere la propria esistenza quotidiana in versi irregolari che hanno il sapore della prosa e il ritmo dei macchinari industriali: in ogni cosa c’è bellezza, un bagliore di umanità capace di donare un senso anche ai risvolti più crudeli e alienanti di un lavoro spettrale che persegue logiche proprie, difficilmente comprensibili, e che resta graniticamente indifferente alle esistenze dei lavoratori che lo attraversano, lo creano e ne perpetuano la leggenda.

La sua prosa è cesellata di deviazioni: canzoni, poesie, ricordi di una cultura sterminata e apparentemente inutile nell’universo semplicistico di un lavoro che si ostina a riconoscersi come manuale e che ci vorrebbe tutti privi di pensieri e di personalità. Eppure l’autore e i suoi colleghi continuano ad esistere dopo il turno, dopo le attività cicliche e disumanizzanti che li vorrebbero rendere simili a una macchina: la loro vita è una rincorsa, un’ascesa verso qualcosa di nebuloso che persiste negli interstizi fra regole, prassi, doveri, debiti, malattie.

Charles Demuth, Aucassin and Nicolette (1921)

Accoppiamenti giudiziosi

Alla linea recupera e perfeziona la lezione dei pittori precisionisti americani, protagonisti fra le due guerre mondiali di un processo di sintesi fra la pittura realista e il cubismo.

Senza indulgenze la storia ha inflitto a questa corrente lo stigma di non aver saputo cogliere e interpretare le criticità e la dimensione umana del fenomeno delle fabbriche, ma a un semplice sguardo è ancora possibile cogliere nelle linee pulite e nelle prospettive ardite il sentimento che animò questi artisti durante l’osservazione delle fabbriche e più in generale degli edifici industriali della loro epoca.

Nei loro quadri infatti la perfezione è assenza di vita: in negativo ci appare come lo sfondo delle vicende cantate da Ponthus, un paradiso artificiale senza umani e senza animali, una perfezione sterile e irraggiungibile nella realtà che si nutre di progetti e profitti e dimentica lo sporco, anzi lo nasconde dietro il primo spigolo affinché l’osservatore non riesca a intravederlo.

Joseph Ponthus estende questo panorama formale a una profondità esclusivamente umana, edificando il proprio romanzo con un delicato lirismo che recupera la compresenza di prospettive inconciliabili tipica della pittura cubista e le dona un nuovo respiro: il lavoro, la vita privata, le loro intersezioni impossibili, i ricordi diventano così punti di vista differenti da cui scrutare l’habitat della fabbrica in un’unica occhiata assoluta.

Charles Demuth, Buildings, Lancaster (1930)

Il mattatoio incarna alla perfezione questi contrasti: la carne macellata raccoglie in sé un’idea di cesura fondamentale per comprendere il disagio che sta alla base dell’intero impianto narrativo. La giustapposizione del sangue e degli sfondi incolori nel momento esatto in cui un cadavere diventa merce unisce animali e umani nel medesimo destino, senza scampo.

Siamo corpi, siamo attrezzi? La voce di Ponthus insinua questa domanda fra le pagine e la lascia colare per invischiare il lettore in un’esperienza di lettura totalizzante. La sua storia però non si chiude su sé stessa, non si lascia ingabbiare e condurre verso la macellazione: si libera, inventa nuovi panorami in cui crescere, si solleva, si eleva, ci risponde. Siamo umani.

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