La fama di Thomas Ligotti è cresciuta negli anni come un’ombra al tramonto. Si è allungata e deformata, coprendo con la propria sagoma nera schiere di emuli, idolatri e fanatici.
Ligotti è notoriamente un personaggio schivo, che rifugge obiettivi e microfoni per lasciar parlare la propria opera. Forse proprio questa sua evanescenza ha contribuito a creare attorno alla sua figura un’aura mitica.

Ma chi è veramente Thomas Ligotti?
Nato a Detroit nel 1953 in una famiglia italo-polacca, laureato in lingua e letteratura inglese, ha da sempre mimetizzato le proprie note biografiche in un’assenza sistematica e spettrale da ogni forma di apparizione pubblica.
Lo possiamo osservare quasi esclusivamente in modo indiretto, come un riflesso appena percepibile o come l’esito di un fortunato impasto di ottime letture – Bernhard, Cioran, Kafka, ma anche Poe & Lovecraft über alles – e dei disturbi nervosi che l’hanno condotto a un’assoluta forma di riservatezza, facendo talvolta dubitare i lettori della sua effettiva esistenza.
Eppure Ligotti esiste, o almeno esiste nel nostro immaginario come vero monolite della storia della letteratura dell’orrore: è un esploratore, uno speleologo, un vero teorico della paura che gratta le superfici del reale per far affiorare dalla routine quotidiana e dagli aspetti più innocui della vita umana il vuoto terrificante che è in agguato dietro ogni angolo.
La sua letteratura, com’è noto ai suoi adepti – si abbevera a un robusto sistema filosofico profondamente nichilista e pessimista, ben enucleato nel grande lavoro teorico intitolato icasticamente “La cospirazione contro la razza umana”.
Il più rilevante punto di forza di Ligotti è contenuto però nei racconti brevi, suo primo amore e oggetto principe della sua incoronazione al prestigioso Bram Stoker Award, a partire proprio dal suo tenebroso esordio coi “Canti di un sognatore morto”, pubblicato per la prima volta nel 1989 e atterrato in Italia grazie a Elara nel 2007.
In questa prima raccolta Ligotti inserisce, intersecandoli in squarci di chirurgica precisione, tutti gli elementi che caratterizzeranno la sua produzione successiva: l’horror vacui esistenziale, le marionette, la dolorosa consapevolezza dell’inesistenza del libero arbitrio, le maschere, la perdita dell’Io, l’ambientazione in città ammorbate da una sottile aria di decadenza.
Per farlo ricorre a piccoli congegni narrativi che risultano al contempo disorientanti, ipnotici ma anche formalmente impeccabili, con echi più che evidenti della grande letteratura weird delle origini.

Ci troviamo così, da lettori inermi, prigionieri nei vortici di un carnevale nero, fra angoscianti presenze notturne, chimici che sintetizzano droghe incredibili, prestigiatori che giocano con la morte, cavalieri condannati alla follia, vampiri, burattini perturbanti e maschere capaci di distorcere il tempo e lo spazio.
Fra le diverse storie e i loro personaggi dolenti e assurdi possiamo così intravedere il profilo intellettuale del loro sfuggente autore e provare a comprendere il suo monumentale impianto teorico, che impregna ogni short story senza mai appesantire la narrazione, ma anzi la sfalda e la sublima verso una forma ancora più pura di terrore, ancora più assoluta delle figure mostruose e delle tenebre brulicanti tanto care alla tradizione gotica.
Accoppiamenti giudiziosi
La forma di orrore più pura è quella del vuoto: vuoto di senso, di scopo, vuoto di vita che corrisponde non alla morte ma all’esistenza inanimata degli oggetti.
Ligotti si dedica con dedizione e follia all’elaborazione di una paura assoluta ed esistenziale che riesce nell’intento titanico di nobilitare il genere horror e il bagaglio corposo dell’esperienza weird americana a un livello ben più nobile e venerato, quello della letteratura speculativa o filosofica.
Lungi dalle scorciatoie più battute, Ligotti sceglie infatti per il suo pubblico un panorama di terrore muto e obliquo che si nutre non di licantropi e deformità fisiche ma piuttosto di burattini e maschere.
Centrale nel suo modo di fare letteratura è proprio la meditazione sulla figura del burattino e – di conseguenza – sulla sagoma invisibile e prepotente del burattinaio.
L’asfissia che si prova leggendo alcuni suoi racconti deriva infatti proprio dall’ immedesimazione del lettore nell’ immobilità coatta dei pupazzi, nella loro totale spersonalizzazione che tanto ci ricorda il nostro divenire oggetti e la nostra progressiva perdita d’identità nel nostro personalissimo incubo postmoderno.

Cos’è più uniformante di una maschera, cos’è più terrificante della consapevolezza di trovarsi costretti su un binario che conduce alla rovina e al terrore più puro che la mente umana possa concepire?
Ben si sposano a questa lettura spietata i bizzarri dipinti di Kenne Grégoire, che non a caso spesso si concentrano sui temi del circo, del carnevale, della maschera.
L’autore – un artista olandese che fa della maestria tecnica un’efficacissima chiave per rappresentare con sconcertante realismo il disagio e l’irrazionalità propri di ogni essere umano – allestisce con cura vedute che sembrano prospettive di un teatro o di un circo, incastri di corpi che sembrano disarticolati come pupazzi, vicinanze eccessive e scomode, compenetrazioni fra figure che si fondono in veri e propri incubi.
Ligotti percorre la stessa strada, anche se con strumenti diversi, e si inabissa in ogni storia nel proprio assoluto pessimismo e nella sua versione intellettualmente devastante di puro orrore cosmico.
Ciò che per Lovecraft assumeva infatti la forma di enormi divinità blasfeme e di corpi indicibili e alieni, in Ligotti si trasfigura e diventa una malattia invisibile, una forma mentis da cui è impossibile fuggire che intacca e decompone la consistenza stessa del reale, arrivando nel suo delirio onirico e nelle sue forme più ardite a minare le consapevolezze del lettore e instillando nei suoi occhi spalancati una nuova, inedita goccia di buio purissimo.