“Cloud Atlas” di David Mitchell

Quando si finisce di leggere “L’atlante delle nuvole” di David Mitchell si provano due sentimenti opposti: da un lato il disorientamento tipico di chi è stato imprigionato in una lavatrice mentre bianchi e colorati vengono lavati insieme in un’indicibile confusione cromatica, dall’altro la meraviglia che travolge chi si confronta con un’opera fisicamente enorme e maestosa come la Torre Eiffel o la Statua della Libertà.

Questo romanzo – pubblicato originariamente nel 2004 e finalista al Booker Prize, al Premio Nebula e al Premio Arthur C. Clarke – è infatti un oggetto meraviglioso e sublime, destinato a lasciare senza fiato anche il lettore più navigato: il suo forte impatto innovativo si riflette da subito nelle coraggiose scelte strutturali dell’autore, che predispone per i suoi lettori una vera matrioska narrativa, in cui cinque storie vengono sviluppate concentricamente, in ordine cronologico, attorno a un unico nucleo collocato in un futuro remoto.

I generi e lo stile in cui le diverse narrazioni sono composte variano sensibilmente, come in un graduale excursus nella storia della letteratura, veleggiando ora verso il diario, ora verso il romanzo epistolare, sino a fare rotta verso la spy story o il romanzo contemporaneo per raggiungere infine forme di comunicazioni futuribili e quindi contrarsi, inesorabilmente, regredendo verso il primo e più semplice metodo di narrazione: il racconto orale.

Partiamo così dal diario di un notaio-esploratore americano, in visita nelle isole disseminate fra Asia e Australia, per arrivare alle lettere di un musicista ambizioso e disperato che ci parla del suo rapporto conflittuale e ambiguo col suo maestro. Poi procediamo, nel tempo e nella lingua, verso la vicenda adrenalinica di una giornalista intenta a smascherare il lato oscuro di una multinazionale e delle sue opache innovazioni in ambito energetico e ancora, più avanti, verso le avventure tragicomiche di un editore imprigionato contro la sua volontà in un ospizio da cui sembra impossibile fuggire. Alla fine il tono vira bruscamente verso due opposti tipi di fantascienza: dapprima in un mondo popolato di cloni schiavizzati per svolgere le mansioni più faticose e umili e infine in uno scenario post apocalittico, preoccupantemente simile all’età della pietra.

Le vicende che s’intrecciano in base a un delicato gioco di richiami e persistenze coprono un ampio arco temporale che si estende dal XIX Secolo al tramonto dell’umanità. Ogni capitolo prende in qualche modo avvio dal precedente, inglobandolo e rivelando in diversi modi di esserne stato pesantemente condizionato: alcuni personaggi leggono la storia che li ha preceduti, altri la ascoltano e idealizzano, altri ancora la vedono come film.

I protagonisti sono accomunati da una strana peculiarità, una voglia a forma di cometa: sono reincarnazioni, sono anime trasmigrate, sono facce dello stesso poligono narrativo difficile da osservare? Oppure sono eletti, anelli della stessa catena, esseri collegati in qualche modo misterioso che ci sfugge?

Come in tutto il libro, le risposte non sono mai scontate né accessibili.

A venirci in soccorso sarà un personaggio minore, intento a scribacchiare appunti apparentemente insensati durante un volo in aereo. Troveremo così, quasi casualmente, alcuni concetti chiave per riuscire a decifrare l’immane lavoro di Mitchell:

  • la distinzione fra passato reale e passato virtuale, ossia ricostruito e rimaneggiato attraverso una forma di narrazione;
  • l’impatto dei detentori del potere (giuridico, economico, fisico, sociale?) nella formazione del passato virtuale;
  • la concezione del tempo come una matrioska di attimi, in cui ogni presente può solo immaginare e ricostruire in via presuntiva tanto i passati che effettivamente lo racchiudono quanto i futuri che custodisce al proprio interno.

Le costanti, che percorrono come una nervatura invisibile ma solida tutto il grandioso impianto narrativo, sono dunque le riflessioni sulla forza della narrazione e sul ruolo del potere nella storia dell’uomo.

In più momenti nel libro, infatti, la narrazione di fatti passati si rivela una base enormemente influente per giustificare un assetto politico o religioso, e diventa anzi una sorta di protagonista sommersa, capace da sola di dare senso all’intersezione delle vicende individuali e collettive che l’autore generosamente dissemina sulle pagine.


Accoppiamenti giudiziosi

L’andamento di Cloud Atlas è quello di un respiro, ciclico e costante, e trova nelle sue storture e nella sua estrema frammentarietà una singolare forma di bellezza che ricorda l’effetto d’insieme dei dipinti puntinisti.

Basta allontanarsi di un passo per cogliere una forma di bellezza che dall’interno delle singole vicende è difficile apprezzare, eppure la si sente scorrere in ogni frase, anche se emerge solo occasionalmente con riferimenti e simmetrie che riescono a unire i tempi e gli spazi della narrazione in un’unica maestosa opera d’arte.

Paul Signac, Opus 217 – Ritratto di Félix Fénéon (1890)

Mitchell si dimostra un virtuoso della parola scritta grazie alla disinvoltura con cui passa da un registro all’altro, come un giocoliere che tiene in aria sei oggetti di forma, peso e colore diversi senza mai farli cadere a terra. Le sei storie così sembrano galleggiare e nel rapido succedersi riescono a incastrarsi come i punti di Signac o Seurat sino a formare una figura coerente e ben definita.

Cloud Atlas è un romanzo estremamente ambizioso e complesso, difficile da comprendere fino in fondo. La sua bellezza è però così luminosa da superare gli ostacoli disseminati dalla sua struttura inusuale e dalla vastità degli ambienti e dei personaggi toccati dalle varie narrazioni.

È un’opera che intrattiene e gioca con la letteratura, ma anche un romanzo molto più politico di quanto potrebbe sembrare a una prima lettura: la sua posizione riguardo la prevaricazione di alcuni uomini sui propri simili è infatti molto netta fin dai primi paragrafi e si rivela nello scorrere delle pagine una vera denuncia, oltre che una profezia ch’è difficilissimo ignorare.

Mitchell, col pretesto d’incastrare sei romanzi brevi in uno schema condiviso, dà così corpo a una poderosa riflessione sulle conseguenze della stessa letteratura (o meglio dell’arte di narrare) sul corso accidentato della Storia.

Nella concatenazione delle storie che compongono l’Atlante delle nuvole, il passato virtuale, fatto di testimonianze e rielaborazioni postume, si rivela molto più importante e fertile del passato fattuale e dunque l’invenzione del passato diventa allo stesso tempo l’arma perfetta per continuare a perpetrare abusi e lo strumento più potente per ribellarsi ai sistemi di potere più iniqui.

La manipolazione del passato può dunque cambiare il presente?

Torniamo al puntinismo, torniamo agli atomi di colore che compongono i dipinti. Quanti tratti devono cambiare perché la storia prenda un altro corso? È davvero solo una questione di percezione e di leggenda, davvero l’atto del narrare può fabbricare nuovi futuri, in modi che fatichiamo a prevedere e comprendere? Un puntino non può certo fare la differenza, ma – come ricorda l’autore in chiusura – cos’è l’oceano se non una moltitudine di gocce?

Mitchell in questo modo lascia aperte molte possibilità e – dispiegando il suo universo in un ciclo di ritorni – semina un dubbio rigoglioso è originalissimo nella nostra marmorea fiducia nei concetti di passato, presente e futuro.

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