La trovo lì. Come sempre, d’altronde. Fissa verso la finestra, a decifrare i frattali di nuvole dell’Upper West Side. Si abbraccia le pallide gambe schermandole coi palmi aperti, come se i raggi mattutini le bruciassero la pelle. Faccio passetti prudenti per non spezzare quel risveglio assorto. Non si volta mica a guardarmi, figuriamoci. Per lei è come se non esistessi.
– Cos’è che guardi, Jo? Non dirmi che il tempo mette… – il Motorola squilla improvviso, ma con mamma non ho davvero voglia di parlare. Capovolgo il display sulla consolle e lascio squillare a vuoto. Il Bose avvia un lounge patinato. Qualcuno tra i Buddha Bar, preso a caso nel mucchio. Ecco, ora sì che iniziamo a capirci. Stappo un Minute Maid all’arancia e affogo un sorriso nell’acquario. Il pesce pagliaccio dorme ancora.
Conobbi Jo ad un rigattiere comesichiama. Saranno stati tre, quattro mesi fa. Un lurido buco nel quale finii per ripararmi dall’ennesimo acquazzone autunnale, sapete, ora che il clima è diventato imprevedibile e tutto il resto. Insomma, lei appoggiava scorniciata sul Balletto Nero di Shinn, nuda tra tristi falsi d’autore. Una voce fioca colorò la penombra del tugurio. – Ah, sapevo avrebbe scelto quella lì, – disse il titolare puntando l’indice tremante. Mi voltai verso il bancone, mentre il vecchio faceva tintinnare qualcosa nella tasca. – Le si addice, sa? – incalzò attraverso il cupo groviglio della barba. Poi coprì il silenzio della mia risposta con un colpo di tosse stanco. Faceva un freddo sottile, in quella tana. – Te la porti a casa con trecento bigliettoni, – concluse schioccando la logora bretella. L’uomo non badava alle mie reazioni, pareva un disco rotto. Seguiva il solco e ripartiva daccapo, sperando ogni volta che la traccia proseguisse. Per farla breve, Morning Sun di Edward Hopper fu l’unica stampa che presi. La portai a casa proprio così, la mia Jo, arrotolata in una tela 28×40 pollici. Per qualche motivo non volevo lasciarla lì. Certo, era una riproduzione del cavolo, accidenti, ma non è che potessi fregare l’originale al Metropolitan.
Il giorno successivo, nel cubicolo dell’ufficio, distrarsi fu semplice tra conferme d’ordine e clienti detestabili. Vantavo un’ottima scusa per farmi i fatti miei. La Parker nera tra le dita seguiva Sade scivolare in Bullet Proves Sour. Dove potrei appendere Jo per incontrarla più spesso possibile in casa? E quale cornice si adatterebbe meglio ai toni minimal della mia camera, senza smorzare il debole sole filtrato nella sua stanza da letto? Si starà sentendo sola, ora, mentre sono via? Pensavo cose del genere. Scarabocchiavo sui documenti. Avrei voluto chiamarla, dico sul serio. C’era qualcosa dentro di me da cacciare fuori, che vedevo ma non riuscivo a strappare via, come un filo incastrato nella cerniera. E tu lo tiri, giusto? Lo tiri forte ma non viene fuori, a meno che tu non apra la la zip. Una serie di minuscoli dentini di metallo chiusi a zigzag, stretti come le mani di una vecchia avara. Ma tanto non la apri, non ci riesci. Hai troppa paura che le tue budella strabordino dalla bocca della lampo, una volta dischiuse le fauci della tua insicurezza all’ultimo grido. Dove sei, mamma, ora che ho bisogno delle tue forbici? Qualcuno mi strappi questo laccio, per pietà! Tu che mi leggi, forse, tu proverai un briciolo di compassione nel guardare il mio maglione sfibrarsi dall’interno, per colpa di questo refe difettoso tessuto da una pakistana mezza addormentata oppure malnutrita, scura come un’ossidiana grezza, seduta tra dozzine di ragazze secche e stanche come foglie raggrinzite a fine novembre, gomito a gomito per sopravvivere a un destino che non avevano mai scelto, avvitato su se stesso come le corna immobili di un markhor, che poteva esaltarle ma invece le ha umiliate, incredule, legate ai nastri dei telai torcendo i loro capelli corvini tra i rulli di un meccanismo più grande di loro, ben più grande anche della mia inettitudine, vestita del loro dolore abbinato a una gonna écru a riporto, che poi neanche si vedeva, nelle mie riunioni in call con direttrice e colleghe, visto che l’inquadratura della webcam prende al massimo fino al cardigan Marc Jacobs …
Bevuto il succo tutto d’un fiato, quasi mi pare che Jo si sia mossa. Ma no, dai. Impossibile. Mi avvicino e socchiudo le palpebre, insistendo quel tanto per togliermi la fissa. Falso allarme. Prendo il tappetino Wellnessmats e lo srotolo al centro del salotto, dritto di fronte a Jo che continua a scrutare qualcosa dalla sua finestra. Provo a convincerla: – Dovresti montare anche tu delle inferriate antiscasso come le mie, Jo. Anche perché… – osservando in uno specchio verticale la flessione turgida dei miei polpacci torniti. Queste Reebok non le metto più. Da oggi solo Nike personalizzate. I miei leggins pompano gli squat. Voglio un culo da sturbo, che quando scodinzolo sulle Tom Ford nei corridoi aziendali la gente si seghi sotto le scrivanie. Ci siamo quasi, il mio personal trainer ha detto che manca un tocco di definizione sul gluteo. Però non è che oggi ci stia troppo con la testa, dopo lo shampoo del boss. Le vendite sono calate, sì. E allora? C’è la crisi, lo sanno tutti. Se il comparto va male, cosa vuoi da me in una congiuntura del genere!
– Sai che c’è, Jo? Una serie di affondi ci vuole proprio, per sfogarsi. – Il morbido lounge del Buddha lascia spazio alla cassa dritta di Give it 2 Me. Con Madonna pompo a mille. Su e giù, su e giù, su e giù. Eccetera. Al variare della prospettiva, variano le percezioni. Durante l’esercizio focalizzo il quadro e mi accorgo che la cornice in resina opaca sembra perfetta a metà altezza, eppure perde un quid quando eseguo il movimento di richiamo verso il pavimento. Mia madre aveva ragione a suggerire un noce chiaro. Non l’ascolto mai, povera sciagurata. E Jo, chissà che cornice avrebbe preferito? A volte vorrei sdraiarmi accanto a lei, sulla metà di letto libera, svuotando le pupille. Non che ci proverei, badate. In completa amicizia. Le chiederei pure perché si svegli ogni mattino alla stessa ora, nella stessa posizione, a fare la stessa cosa. Che due palle! E approfitterei per chiederle come riesca a mirare al sole senza un paio di Rayban addosso. Ora che ci penso, i miei devo riportarli in ottica. Comunque basta affondi, è ora della doccia. Sciacquo via il sudore con un getto d’acqua tiepida, sfregandomi addosso la spugna intrisa di Palmolive ai sali del Mar Morto. Una sensazione ruffiana che nasce dalle spalle e si annida nelle mie insicurezze. Mi vibra dentro al passare della schiuma profumata, promettendo il climax in prossimità dell’inguine. Un gran figlio di cagna disse che le donne vanno prese dai genitali. Sentenza fuori luogo, disgustosa, arrogante. Bastardo. Continuo a strofinarmi, sedotta da un’idea ripugnante e magnetica, come la luna riflessa sul fondo vischioso di un pozzo di petrolio. Dopotutto, gli uomini non si conquistano slacciando i pantaloni? Facciamole valere, queste pari opportunità. Spengo la musica, che avevo scordato accesa, sgocciolando umori tediosi sui motivi del Bukhara. Apro l’armadio e mi vesto con la paletta di colori più adatta al mio animo. Inserisco la fibbia alla cintura in pelle Michael Kors, accarezzando col pollice le lettere dorate del logo. In salotto scelgo il cappotto dal guardaroba. Ho solo Woolrich, non posso farne a meno. Saluto il dipinto con un gesto sbadato, chiudendomi il portone alle spalle. Oggi al Macy’s iniziano i saldi, finalmente. Prenderò un taxi per evitare la calca. Lo pagherò in contanti, così terrà le zampe lontane dalla mia Visa Gold.
Immagino che Jo continui ad osservare gli eventi che si dipanano fuori dalla finestra, ai piedi del palazzone dai mattoni rossi, sotto al cielo irrequieto di Manhattan. La sua esile ombra proietta sul cuscino una federa d’indolenza. I piedi radicati nelle molle arrugginite del materasso. Gli occhi penetrano la grande mela come un paziente verme, scavando le strade della metropoli sotto ai parchi e oltre gli edifici, le nuove lussuose costruzioni e i sudici ruderi dimenticati, passando per cunicoli nascosti ad abitanti indaffarati e turisti trasognati, tra l’opulenza delle vetrine e la spazzatura dei loro scarti, spargendo i minuscoli semi di consuetudini adottate senza mai preferirle. È assorbita da una spugna di pensieri, congelata in un momento reciso dal passato e privo di futuro, a picco su una voragine di presente irrisolta. Quando tento di coinvolgerla, l’avrete notato, non ascolta. Ci provo tutti i giorni, garantito. Ma con un quadro, alla fin fine, non è che puoi parlarci. Neanche da donna a donna.
L’autore
Si fa chiamare Apolae, perché solo così riesce a scrivere liberamente. Nato nel 1985. Pallacanestro da adolescente. Semestre di studio in USA. Laurea in Lingue, con una tesi sulle lingue artificiali ed una sull’Inglese Afro-Americano. Sposato. Un figlio di tenera età. Impiegato nel commercio internazionale. Piccoli premi letterari locali conseguiti per narrativa breve. Pubblicazione di un racconto nell’antologia The Source. Scrivere sull’Acqua edita da LibroMania (DeA) nel 2022. Apre nello stesso anno una pagina su Instagram per scrivere mini-racconti ispirati alle proprie foto di viaggio. Ama la sua famiglia e la letteratura. Si impegna per coniugarle.