Agnizione. Sebald semina la parola chiave del suo capolavoro in un punto imprecisato, nel mezzo delle pagine, seppellendola con amore nello scorrere incessante dei discorsi e delle riflessioni che costituiscono il nocciolo duro e impenetrabile del suo lavoro.
Per agnizione, secondo la Treccani, s’intende il riconoscimento di uno o più personaggi che scoprono la loro identità fin allora sconosciuta. È un termine di derivazione teatrale, è un topos a che identifica il momento in cui l’eroe sviluppava un’improvvisa consapevolezza della realtà.
Questo movimento – frutto d’indagine o di apprensione epifanica – è parallelo a quello della catarsi, la purificazione cui vanno incontro anche gli spettatori che assistono alla messa in scena, perché conoscere è liberarsi, disvelarsi, tornare a uno stadio di purezza primigenio.
Facendo propri gli insegnamenti del teatro classico, con Austerlitz W.G. Sebald s’immerge nella tragedia del Novecento con acume e lucidità per ricomporre un pezzo alla volta un puzzle che sa allo stesso tempo di antichi teatri e di musei, di architetture labirintiche e maestosi mausolei e che, attraverso la vicenda di un singolo personaggio, delinea il destino collettivo della nostra umanità offesa.
La storia ci viene riportata de relato da un narratore che pare coincidere con l’autore stesso: è la sua voce ondivaga e piana che ci riferisce le parole di una figura sfuggente come quella di Austerlitz: uno studioso vagabondo che ricorda per fisionomia il filosofo Wittgenstein, un fantasma che s’aggira per l’Europa, insomma l’indiscusso protagonista della vicenda, l’indagatore e l’indagato, oggetto e soggetto della sua stessa inchiesta.

Austerlitz ha avuto in dono un passato nebuloso che affonda le proprie radici sino al cuore del secolo breve e anche oltre, ramificando la propria memoria fisica fatta di monumenti, fotografie e spettri di carta per tutta Europa.
La sua vita è essa stessa una storia di ricordi e di inseguimenti, spesa fra le ricostruzioni di un passato frammentario e il trasporto languido verso l’elucubrazione, la riflessione disinteressata, lo studio.
Austerliz si esplora e s’interroga come se il suo corpo e la sua mente fossero reperti preziosi e misteriosi, come se la sua genealogia fosse la chiave di un mistero universale che abbraccia l’intero genere umano.
Sulla sua figura titanica incombono due elementi opposti e stranamente paralleli: la memoria immateriale e duttile degli uomini e quella fisica e concreta degli oggetti. Non è un caso che la sua odissea personale si consumi nell’analisi minuziosa delle architetture pubbliche e che da esse ricavi ora terrore, ora fascinazione, ora incredibili consapevolezze.
Costeggiando la fragilità e l’instabilità della memoria umana, infatti, Austerlitz impara ad affidarsi alla suggestione dei materiali, alle foto che punteggiano la narrazione con gusto tipicamente sebaldiano, alle vestigia del passato che continua ad esistere e che contiene in sé, indelebile, la Storia con il suo tumultuoso divenire.
A risultare particolarmente interessante è soprattutto la struttura che Sebald sceglie per il suo magnum opus: la narrazione non è mai agevole, eppure non s’incaglia, anzi scorre elegante fra le feritoie della memoria e si sviluppa per rivelazioni e indagini come un giallo senza vittime o come un romanzo d’avventura che è essenzialmente interiore.
Sebald supera i generi con i suoi paragrafi interminabili e con le sue divagazioni da autentico flâneur. La sua maestria da narratore si traduce in uno scavo costante che recupera visioni e riflessioni lontane per vagare e comporre sulla pagina qualcosa di bello e sconfinato, che ha il sapore del classico pur nella sua evidente modernità.
Accoppiamenti giudiziosi
Austerliz è intimamente connesso al concetto di memoria: a partire proprio dall’accezione riferita alla commemorazione delle vittime del nazismo, la sua gestione del ricordo come fenomeno personale e pubblico riporta alla mente un’opera dell’artista sudcoreano Ilkwon Yoon significativamente intitolata Memory.

Si tratta di un cubo costruito impilando tovaglioli su cui sono state stampate, in una monocromia molto sebaldiana, i ritratti dei compagni di classe dell’autore, recuperati da una vecchia foto di gruppo.
Questa costruzione è naturalmente fragile e provvisoria e assume una compiutezza solo nella stratificazione e nella sistematizzazione delle sue singole componenti: la memoria svanisce, un tovagliolo alla volta, e si consuma nella vita di tutti i giorni portandosi via brandelli di volti e di esistenze col suo inevitabile deteriorarsi.
Yoon e Sebald, tuttavia, hanno sviluppato una sensibilità molto particolare che permette loro di lavorare con i ricordi come se fossero corpi solidi, allestendo una memoria collettiva e individuale con precisione e umanità.
La loro escursione nel passato è un viaggio al contempo fisico e spirituale, che si compone di dettagli trascurabili e quotidiani – come un viso familiare, un museo, una forma intuita e non compresa – per raggiungere una formazione complessa, stratificata e magniloquente e dare corpo all’enorme architettura del tempo passato che ci preme ogni giorno sulle spalle e ci obbliga a confrontarci con la nostra Storia.