“2120” di George Wylesol

2120. Non è una data, non è il PIN di un telefono. È un librogame, anzi un graphic novel in cui le scelte del lettore diventano parte integrante della narrazione.

In questo libro bizzarro e disturbante, portato in Italia da Coconino Press, i numeri sono importanti, così come gli enigmi: siamo Wade, tecnico informatico, e ci troviamo al numero 2120 di MacMillan Drive per sistemare un computer.

C’è un parcheggio, c’è un edificio che sembra uguale a centinaia di altri edifici che abbiamo visitato nella nostra vita di lettori: uffici démodé e vagamente squallidi con le pareti gialline e la moquette verde, locali che servono a qualcosa (forse avevano un’utilità, una volta?) ma che non stanno realmente a cuore a nessuno. Sono case vuote, sono di tutti e non appartengono a nessuno. Sono negletti e disabitati e non ci trasmettono alcuna sensazione positiva.

Ci mettono anzi a disagio con la loro decadenza prodotta in serie, con la loro povertà esibita fra muri ammaccati, macchie, mobili semplici ma invecchiati male, come attrezzi usati e poi buttati via. Ci terrorizzano perché sono vuoti anche quando sembrano pieni di gente.

Cosa ci facciamo allora qui dentro? Perché l’edificio sembra stranamente enorme, come se si aprisse in un oceanico labirinto che deforma, amplifica, sconvolge le architetture sempre uguali, sempre banalmente terrificanti come una catasta di pratiche amministrative redatte da uno squilibrato?

Niente sembra avere senso, al 2120 di MacMillan Drive, nemmeno le prove a cui saremo sottoposti con Wade nel tentativo di trovare una via d’uscita.

George Wylesol, con questo prodotto anomalo che sovverte le regole della narrativa per calibrare un concetto sottile e profondamente innovativo di orrore, ci trascina in un incubo soffuso e ripetitivo mettendo nelle nostre mani la vita di un personaggio di carta che sentiamo da subito come tremendamente affine a noi stessi.

Lo smarrimento, la mancanza di senso, la ripetitività, lo squallore inquietante di un certo tipo di architettura ci imprigionano nello scorrere ineguale delle pagine, mano a mano che scegliamo quale pista percorrere, quale porta aprire, quale enigma affrontare.

Non è un semplice romanzo a bivi, né tantomeno un gioco in cui la sorte (tradizionalmente incarnata dalla figura tetragona dei dadi) rappresenta una componente fondamentale: non esiste caso, ogni scelta porta a conseguenze. Esistono molti epiloghi, ne esiste uno solo? Di sicuro ogni decisione ha un peso e non è affatto scontato che riusciremo ad uscire dall’ufficio.

Wylesol dissemina infatti la propria creazione di trappole e loop temporali e situazioni ambigue in cui procedere diventa un autentico incubo. Spesso non avremo idea di come uscire da un impasse o ci sentiremo letteralmente intrappolati in una gabbia di carta impossibile da forzare.

Matteo Massagrande, Palazzina di caccia (2019)

Merita poi un discorso a parte la sensazione di paura purissima che 2120 riesce a infiltrare nei lettori: sfrutta di sicuro l’immedesimazione e altrettanto sicuramente è amplificata dalla sensazione che l’intero peso della narrazione ricada sulle scelte di chi interpreta e sceglie la successione delle pagine, ma non si ferma qui.

Già prima del gran finale, infatti, si avvertono le crepe di una vita incardinata su obiettivi e ripetitività: la sensazione di angoscia esistenziale che impregna le pagine di questo libro è un orrore burocratico degno di Kafka, è una paura che trascende gli stilemi della tradizione horror per imperniarsi su qualcosa di molto più profondo e spaventoso, la mancanza assoluta di senso.


Accoppiamenti giudiziosi

Wylesol fa suo il dramma postmoderno della mancanza di futuro: fuori non c’è niente, non esiste un “dopo”. Possiamo solo continuare a rimestare nel passato allora, possiamo sforzarci di tornare indietro per finire schiacciati da quella sensazione di nostalgia per un futuro ormai irrealizzato che contraddistingue il sentire dell’uomo contemporaneo.

La medesima inquietudine impregna i dipinti di Matteo Massagrande, che si è dedicato profusamente all’analisi e alla riproduzione iperrealistica di interni in vario stato di abbandono.

Matteo Massagrande, La porta bianca (2015)

Nelle sue opere, come nel graphic novel di Wylesol, si esplorano edifici dimenticati in cui il vuoto diventa protagonista e l’incuria dona profondità a scenari vagamente spettrali anche se assolutamente ordinari.

Le presenze che infestano questi luoghi di confine fra pubblico e privato, fra passato e presente, sono infatti proiezioni di noi stessi, di ciò che saremmo potuti diventare se solo avessimo avuto un futuro davanti.

Chissà cos’avrebbe detto Mark Fisher di queste opere così diverse eppure così vicine. Avrebbe parlato di hauntology, avrebbe ribadito che “il nostro desiderio è senza nome”?

Wylesol e Massagrande ci parlano proprio di questo lost future e del potere infestante di ciò che non è né presente, né assente, né morto (come ebbe a dire Colin Davis in Hauntology, spectres and phantoms, 2005).

È attraverso lo studio di queste assenze sensibili che Wylesol e Massagrande sezionano la tragedia dell’uomo contemporaneo, partendo da ciò che resta del suo passaggio insensato sulla Terra: rifiuti, disordine, dubbi, domande destinate a rimanere senza risposta.

È proprio nella mancanza di senso che risiede l’orrore più profondo, quello che ci prende alla gola alla prima pagina e si stringe progressivamente sino a toglierci il respiro: il terrore di scoprire che dopo la fine, dopo la storia e il colophon e la quarta di copertina non ci sia assolutamente nulla.


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