“Vindice” di Edoardo Balacchi

Arriviamo stranamente in ritardo. La porta di casa dà su un giardino ancora troppo verde per essere autunnale e le foglie cadute dagli alberi stanno accumulate con precisione in una piramide sanguigna accanto al cancelletto.

Wanda si sistema il trucco, guardandosi riflessa nello specchio retrovisore. Io cerco il vino sotto il sedile. Tolgo la polvere dalla bottiglia, cerco di capire se abbiamo levato il cartellino del prezzo. Siccome non lo trovo, prendo una penna dal cruscotto e lo scarabocchio sul retro. € 35,00. Calco le cifre, le ripasso più volte. Wanda fa lo stesso col rossetto e ora ha un sorriso gonfio sulle labbra imbronciate. Il trucco fa miracoli.

Scendiamo, ci avviciniamo al citofono che è illuminato e proietta un piacevole alone color carne nelle sfumature ambigue del giardino e del vialetto. Ci sono residui di fiori estivi morti, alcune pagine di giornale piegate ordinatamente dal vento.

– Cos’era, secondo te? – mi chiede Wanda, guardandomi di lato mentre insiste a sorridere all’occhio invisibile del citofono. Continua a suonare.

– Un gatto. O una volpe. Non si capiva bene.

– Non poteva essere un gatto. Non di quel colore.

– Non l’ho visto bene.

– Dio, mi tremano ancora le gambe.

Le poso una mano leggera sulla spalla, ha la pelle d’oca. Le dico: – Non lasciamoci distrarre. Dobbiamo essere forti. Vero?

Ha i collant che vibrano, in effetti, forse è per il freddo, forse lo sta facendo apposta. Il suo indice inchiodato nel campanello continua ad attivare una melodia fastidiosa.

Alla fine vengono ad aprirci. Vedo Vindice sporgersi dalla soglia. Vive negli interstizi, esiste senza essere visto. Come un mito, come Dio. Ora ci guarda o forse guarda la strada e ci trapassa con gli occhi mentre gli veniamo incontro. Wanda traballa sui tacchi, lascia ferite aperte nelle foglie morte.

– Venite, non fate complimenti, – Vindice sorride come sorridono le persone che non sono abituate a farlo. Ha occhi trasparenti e mani febbrili mentre spalanca la porta e ci invita ad entrare.

Ci puliamo i piedi, forse dovremmo toglierci le scarpe. La casa è nuova, lo capiamo subito dall’osceno odore di legno e vernice fresca.

– Non fate uscire il cane, mi raccomando. Venite, Sara sta già cucinando qualcosina.

Ora è il momento dei complimenti, gli stessi di sempre. Solitamente lascio a Wanda questa parte perché le donne sono più brave a mentire ridendo, ma stavolta devo impegnarmi. Porgo il vino a Vindice, spero che veda il prezzo, anche se è finto.

Poi mi sento dire: – Avete messo su una bella tana. Bellissima. Complimenti.

– Ci siamo dati da fare. Come si dice, è per la vita, no?

– Niente è per la vita, – s’intromette Wanda.

– Questa casa sì. Questa casa è per la vita.

Lo seguiamo in cucina. Hanno ricavato un open space dove prima c’erano due o tre stanze divise, hanno abbattuto qualche parete, alzato i soffitti. Ora ci sono più finestre, più colori. Restano invisibili ma assillanti le vestigia di ciò che è stato: le ombre di vecchi quadri o specchi sui muri appena ritinteggiati, il marmo rovinato al limitare delle finestre, i graffi di cane o di gatto sul legno delle porte, come se rinnovarsi fosse una farsa. Recitano svogliatamente Vindice e Sara. Nel loro ménage apocalittico annuso odore di essiccazione. Il tavolo è al centro, vedo la curva della schiena elegante di Sara piegarsi verso un forno e distendersi. Ha un abito blu attillato e i capelli biondi raccolti sulla nuca. Solo allora mi rendo conto di quanto entrambi siano eleganti e sfiniti.

– Sara, sei uno schianto! – la bacio sulle guance, le stringo i fianchi un po’ più del dovuto ma sembra non accorgersene. È raggiante, ha le occhiaie che ridono e un ridicolo guanto da cucina a forma di pupazzo sulla mano con cui sta rimestando nel forno.

– Non sapevo fosse una cena di gala, – continuo. – Guarda che tavola. Wow. Ehi Wanda, tesoro, dimmi… da quant’è che non mangiamo su un tavolo del genere?

– Noi a casa non abbiamo un tavolo, praticamente. Abbiamo un deposito di roba inutile. Mangiamo fra i ritagli di giornale e le cataste di libri ormai.

– Sono per le mie ricerche, – mi intrometto. Fisso Sara negli occhi, lei distoglie lo sguardo. Sa perfettamente di cosa sto parlando.

Wanda ha una calza rotta, un minuscolo filo tirato deforma l’intera trama del collant fin dentro la gonna. La guardo incombere verticale sulle sue gambe che ora sembrano storte e stranamente affascinanti. Mi è sempre piaciuta per le sue imperfezioni, per la cellulite sul culo, per i denti storti. Wanda autenticamente non fa niente per sottrarsi al giudizio di chi la guarda eppure trabocca sicurezza, non è mai fuori luogo. Mentre mi mordo un’unghia, la vedo sporgersi per baciare Sara e chiederle dove sia il bagno.

– Ci abbiamo messo un’eternità in macchina, cara, e la mia vescica non è grande quanto sembra a prima vista.

Sara e Vindice scoppiano a ridere, le indicano la toilette che è sempre in fondo a destra, come in tutti i film.

– Sapete, abbiamo visto un film ieri sera, – comincio a dire mentre Wanda ci lascia sparendo nel corridoio che è buio e sereno come una notte all’aperto.

– In tv?

– Sì, non ricordo su quale canale. Non ricordo nemmeno il titolo. Parlava di un tradimento.

– Intendi fra marito e moglie? – Vindice mi strizza il braccio amichevolmente mentre corre a prendere dal frigorifero una bottiglia di vino bianco. Ha l’aria preziosa e fragile delle cose perdute, mi chiedo se l’abbia trovata per terra, se sia il tesoro sepolto di qualche pirata sbadato o la reliquia di un custode reticente. Ha l’etichetta dorata che si stacca, basta tirare un po’. Sotto mi sembra ci sia un’altra etichetta. Più vecchia, più artigianale.

– Non necessariamente, – gli rispondo, rifiutando con un cenno della mano il vino che sta versando nei flûte di cristallo appena comparsi sul pianale della cucina, – diciamo tradimento in generale. Tradimento fra coniugi, fra amici, fra soci in affari. Era un film per episodi.

Mi appoggio alla parete, evitando la ciotola del cane che è piena di un materiale scuro e colloso, che manda un cattivo odore. I miei piedi la sorpassano in un valzer che mi porta vicino a Sara.

Ha lo stesso profumo di sempre eppure sembra più dolce. Forse è il sudore a diluirlo, vedo che le sono comparse gocce minuscole sulla fronte e che ha un ciuffo di capelli stampigliato sul collo.

Respira a fondo, eppure non sembra affaticata.

Mi guarda negli occhi a lungo, poi mi dice: – Beh, dovrai darci assolutamente il titolo. Io adoro i film a episodi. Le storie brevi. C’è molto materiale da immaginare, in una storia breve. Voglio dire, nei film lunghi spesso… si dice proprio tutto, si vede troppo…

– Anche i film lunghi hanno il loro perché, – interviene Vindice, bevendo in un solo sorso tutto il suo bicchiere. – Certe storie non ci stanno in dieci o venti minuti.

– Basta saperle raccontare.

– No, non puoi ridurre tutto a un concentrato, non funziona.

Sara si sposta, torna al forno. Quando lo apre una vampata di vapore bianco le offusca la vista, la costringe ad arretrare. Ora sento che vuole cambiare argomento: – È quasi pronto. Che ne dite se ci sediamo? Porto l’aperitivo.

Prendo posto a capotavola. Sara e Vindice mi circondano, arrivano con piccoli piatti pieni di prelibatezze che fatico a comprendere.

– Avete trovato traffico? – mi chiede Sara, mettendomi nel piatto qualcosa di piccolo e arcuato.

Sembra incompleto, abortito. Non so se lo voglio mangiare eppure devo farlo.

Intanto guardo la porta, mi chiedo se Wanda abbia già finito. Anche loro sembrano notare la sua assenza, ma non fanno domande. Forse hanno capito tutto, forse sono troppo vigliacchi per parlarmi senza filtri. Hanno bisogno di film e tendine colorate e cani e vapore. Sara non la vedo più, ora si è chinata sotto il tavolo a raccogliere qualcosa. La sento frugare fra le mie caviglie, sento le sue mani passarmi fugaci sui polpacci prima di riemergere con un orecchino. Se lo rimette nel lobo, si trafigge lentamente come gustando il sapore del metallo che le scorre nella carne. I suoi movimenti sono fluidi e fasulli e proseguono in quelli di Vindice, che meccanicamente si porta una mano all’orecchio, se lo gratta, lo tira verso il basso.

– Avete trovato traffico, stavamo dicendo?

– Niente traffico.

– La strada per arrivare è un po’ difficile.

– Non particolarmente. Vedi Sara, tesoro, noi siamo abituati a guidare in condizioni ben peggiori. Il punto è che abbiamo trovato una cosa strana in mezzo alla strada.

Ora Vindice mi si avvicina, aggrotta le sopracciglia sino a farsi comparire sulla fronte due righe profonde che lo tagliano in due. Ha due facce opposte, sembra ridere e digrignare i denti contemporaneamente. Forse è solo il vapore, forse mi viene vicino perché non riesce a sentire bene.

– Che tipo di cosa strana? Qua ci sono un sacco di cose strane.

– Un animale, almeno credo.

– Era vivo?

– Non so. Come si fa a capire se qualcosa è vivo, in quelle condizioni? Era grosso come un gatto, forse un po’ di più.

– E non era esattamente vivo, dico bene?

Mi torna in mente il grumo di carne, mi ricordo il suono gorgogliante del suo respiro ineguale che lo gonfiava e sgonfiava come un mantice.

– Non so dire esattamente, – confermo – era un animale molto strano. Ha spaventato Wanda.

– In macchina si ha sempre la sensazione di essere invulnerabili. Il vetro fa quest’effetto. Secondo me ci ricorda la televisione. Siamo dietro un vetro e niente può succedere veramente. Voglio dire: è tutto finto, quello che vediamo.

– Non credo che l’animale fosse finto.

– No, certamente. Però era dietro un vetro, no?

Wanda ritorna. Ha tolto le scarpe, ora poggia delicatamente i piedi sul parquet mentre avanza scorrendo come se non avesse peso. Ha il viso arrossato.

– Tutto bene, cara?

– Certamente, cara. – lei e Sara si toccano, si sfiorano a malapena. Wanda prende posto di fronte a me, all’altro capo del tavolo, e allunga i piedi sulla sedia che è accanto a Vindice.

– Stavo raccontando di quella cosa che abbiamo trovato per strada.

– Il cumulo d’erba tagliata, dici?

– Non era un cumulo d’erba. Era un animale.

Wanda ride, si copre la bocca col tovagliolo: – Era un grandissimo cumulo d’erba, infatti. Mai vista una cosa così.

Sara mi guarda, gioca con l’orecchino. Butta un’occhiata fugace al forno che alle mie spalle si sta riempiendo di fumo bianco. Dice: – Quindi non era un animale?

Io sorrido, ingoio ciò che ho nel piatto: – Forse era erba. Solo tantissima erba.

Vindice cerca il cane. Continua a chiamarlo come se non sapessimo che è tutta una grande bugia. I graffi alle porte, il rumore di masticazione, le grida. È qualcosa che non si dimentica facilmente.

Eppure la recita funziona, tutto ha i suoi tempi. Vindice è un ottimo ospite, nonostante il fumo e l’assenza del cane. Mi guarda negli occhi mentre parla e cerca di capire perché sono nervoso. Io continuo a mangiarmi le unghie, lascio fare a Wanda e mi concentro sugli schemi che le briciole compongono sul tavolo. Sono direttrici, tane di predatori. È una mappa da seguire con fede cieca, gli occhi bruciati dalla preghiera, il timore distillato nelle vene.

Sara porta in tavola un nuovo vassoio fumante. Io guardo dalla finestra la quiete sul giardino oltre la patina di condensa che offusca i vetri. Mi chiedo cosa sembriamo, visti da fuori. Ci avventiamo sulla pietanza come bestie, Wanda afferra qualcosa che sembra un osso e se lo porta alla bocca, Vindice tira coi denti un lembo di carne e di pelle croccante sino a farlo cedere con uno schiocco.

– Come vi siete conosciuti, allora? – la domanda mi esce dalla bocca con brandelli di carne masticata e odore di bruciato. Wanda mi manda dall’altro capo del tavolo un delicato cenno di assenso. So che ha portato a termine il suo compito, so che ormai è solo questione di tempo.

Sara sorride. Non ha toccato ancora il piatto. Cerca con lo sguardo il supporto di Vindice ma trova solo un animale intento ad alimentarsi. Non c’è strategia, non ci sono rifugi.

Prima che possa sviare la inchiodiamo: – Come vi siete conosciuti, quindi? Dicevi…

– In biblioteca. Credo.

– Credi?

– Forse ci eravamo già visti da qualche parte, non ricordo.

– Forse tu hai visto lui, ma lui non ha visto te. Dietro un vetro.

Vindice smette di mangiare. Ora sembra confuso. È la prima volta che lo vedo così maneggevole, friabile. Vorrei che Wanda con uno scossone del piede lo mandasse in frantumi ma lei non fa nulla, continua a guardare Sara con due occhi scuri e infiniti. La guarda e mastica lentamente ogni boccone.

– Non ho ancora capito dove vi siete conosciuti. In biblioteca. E poi?

– Così, mentre guardavamo i libri.

– Su, ragazzi! Lasciatela in pace. – Vindice si alza in piedi a fatica, forse è il vino, forse ha mangiato troppo. Ha un’espressione bonaria e innocua, solo leggermente spaesata: – Datele un po’ di tregua. Ha cucinato così a lungo che il calore le ha dato alla testa. Non è così, amore?

Sara annuisce, poi scuote la testa. Il lampione oltre la finestra e il forno fanno a gara per cingerla nelle loro luci contrarie.

– Non la stiamo infastidendo! Vero, tesoro? Sono solo due chiacchiere. Ora se vuoi ti raccontiamo, Vindice, come noi abbiamo conosciuto la tua Sara. Ti va?

Sara trema, mi guarda e mi cerca coi piedi sotto il tavolo. Io ritiro le gambe sotto la sedia e la evito, abbasso lo sguardo. Ora Wanda sta cominciando a raccontare la storia che conosco a memoria, non serve più che la ascolti.

Mi chiedo solo cosa succederà dopo il dolce. È una barriera che la mente non riesce a valicare, come la morte. Andremo tutti sui divani, a parlare seriamente, senza giri di parole? Oppure ci divideremo, Vindice mi metterà come un padre il suo braccio leggero attorno alle spalle e mi porterà nel suo studio per fumare un sigaro e lasciare le donne alle loro faccende? Forse sarà Sara a portarmi via e mi farà sprofondare nel suo piumone azzurro, mentre tutto si scioglie e finisce risucchiato nello scarico con gli avanzi del vino e il mio vomito e tutta la carne maciullata che uccidiamo sulle strade fingendo che sia solo erba falciata da poco.


L’autore

Edoardo Balacchi gestisce Nabu dal 2020. Qui la sua bio.

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