Gli americani hanno – forse in misura maggiore degli europei – un vera fissazione per la classificazione. Amano le etichette, i confini, le tessere col nome da appuntare sulla giacca. Amano dare un nome alle cose.
In particolare, sembra per loro importantissimo discernere un’opera letteraria in base alla lunghezza: hanno così elaborato standard molto stringenti e confini più o meno stabilì fra il novel, la novella, la novellette e la short story. Naturalmente il pragmatismo americano si traduce in numeri, battute, cartelle, parole.
La cartografia della letteratura americana appare così ben recintata: qui ci sono i romanzi, qui i racconti.
Ma cos’è veramente un racconto?
Ho sentito dire spesso che “è racconto ciò che si può leggere in una sola sessione di lettura”, ma anche che “è racconto ciò che si può comporre in una sola sessione di scrittura”.
Questi termini larghi e opinabili lasciano certamente confini più sfumati: un racconto può svilupparsi su un’ottantina di pagine, ma anche limitarsi a un solo paragrafo.
Lydia Davis, che ha fondato la sua produzione letteraria proprio sulla forma breve, appare fortunatamente meno affezionata alle definizioni dei suoi interpreti: lei scrive e basta. La lunghezza non conta.
Con la sua raccolta “Osservazione sulle faccende domestiche”, proposta in versione italiana da una Mondadori in stato di grazia, l’autrice statunitense ci abitua anzi a un superamento delle logiche di misura che da sempre fungono da frontiera per le definizioni di romanzo e racconto, visto che compone con pochi tratti storie molto vaste o viceversa dilata vicende minuscole in riflessioni estremamente minuziose destinate a riempire decine di facciate.

Il suo lavoro parte sempre da un esame solerte sul reale: è un’indagine che parte dagli oggetti che popolano le nostre vite quotidiane per arrivare al nocciolo delle nostre esistenze. È uno scavo, un’intaglio, un’atto liberatorio e purificante.
La brevità della prosa della Davis può anche sconcertare: talvolta i suoi racconti sono lunghi una riga o poco più, talvolta sembrano quasi appunti presi su un post-it durante una telefonata.
La sua idea di letteratura però appare sempre coerente e inflessibile, la vediamo farsi orgogliosamente garante della sua produzione come una madre che si erge a protezione di tutti i suoi figli, anche del più gracile. Sono racconti, ci rassicura, sono racconti.
La sua attenzione come un bisturi seziona i capitoli più ordinari della sua stessa vita e ci restituisce istantanee estremamente nitide, ora ironiche, ora amare, ora spiazzanti. Non si può non amare la sua precisione, la chiarezza con cui sfida il lettore presentandogli una pagina in cui il bianco sovrasta il nero.
La Davis ci racconta nella sua raccolta una sé fragile, nervosa, forse minuscola, con un tono confidenziale e piano che dà alle cose esattamente la forma che devono avere, ma dimostra nel contempo con la sua scrittura una fiducia incondizionata nei propri mezzi e soprattutto nel lettore: è sicura infatti che quel bianco di troppo lo riempirà lui, che da poche righe saprà tirar fuori un romanzo o qualcosa di ancora più maestoso.
Accoppiamenti giudiziosi
Il materiale con cui la Davis compone i suoi racconti è comune e ordinario: ci parla di aspirapolveri, mucche, case, treni.

Ogni cosa sembra però assumere connotati metafisici mentre viene elevata a protagonista di un racconto o di una riflessione: la sua voce unica ha infatti la capacità luminosa di mettere al centro della pagina ciò che normalmente sta ai margini, elevando elementi assolutamente trascurabili al ruolo di protagonisti assoluti, similmente a quanto fatto da Giorgio Morandi con le sue nature morte.
A questo contribuiscono l’alternarsi di racconti ordinari, sogni e storie à-la-Flaubert. Tutto diventa materiale letterario, la lingua diventa duttile, il focus volubile.
Lydia Davis recupera, forse inconsapevolmente, il metodo e l’eleganza di Morandi, da sempre persona schiva e riservata, abituata a rimanere lontana da correnti e mode come da tutti gli aspetti più triviali della società umana, per dedicarsi in silenzio al proprio percorso fatto di studio e applicazione.
La poetica dei due autori segue binari divergenti ma conduce a un risultato analogo: il loro lavoro si concretizza infatti con una ricerca dell’essenziale che sta all’interno di ogni elemento della nostra quotidianità. Sulla pagina come sulla tela, le figure di bottiglie, vasi e ciotole si combinano per trascendere verso una riflessione sul reale e sul mistero dell’essenza ultima delle cose più piccole.

Morandi e Davis sono d’accordo: non servono grandi viaggi per trovare se stessi, basta guardare la propria casa con una nuova forma di attenzione, con una nuova fame.
Lo stesso Morandi ebbe a dire, non a caso: “Per conoscere non è necessario vedere molte cose, ma guardarne bene una sola”. È questa la base di partenza della sua esplorazione acuta e austera dell’altro-da-sé, incorporato ora in un bicchiere, ora in una brocca.
Davis e Morandi finiscono così per sovrapporsi nella medesima sensibilità, che pare preclusa ai normali esseri umani: hanno il senso delle cose, riescono a parlare la lingua silenziosa degli oggetti. Come anacoreti si distaccano e osservano, contemplano, riflettono.
La loro semplicità, frutto di un lavoro di ricerca minuzioso e votato alla purezza più assoluta, può stupire e disorientare, ma sicuramente riesce a smuovere qualcosa nel profondo di ognuno di noi e ci obbliga a guardare più da vicino, a dubitare, a comprendere più intimamente la meraviglia che si cela dietro ciò che spesso etichettiamo come “ordinario”.

Osservazione sulle faccende domestiche
Lydia Davis – Arnoldo Mondadori Editore, 2022