L’altro giorno sul treno ho visto sporgersi dallo schienale di un sedile davanti al mio un ciuffo di capelli decolorati, pettinati a esplosione, dritti verso l’alto. Appartenevano a una signora di mezza età con i jeans e il trucco leggero. L’ho sentita parlare di spesa, di figli da recuperare a scuola, di pratiche sulla scrivania.
Eppure – lo dichiara subito Marco Philopat, in apertura del suo memoir-cult “Costretti a sanguinare” – i capelli sono fondamentali. Lo sono, almeno, nella galassia punk, in cui quella detonazione di capelli ha rappresentato una specie di vessillo, da difendere ed esibire ad ogni costo.
Com’è finita una pettinatura del genere in testa a un’impiegata? Che fine hanno fatto i punk? Sono diventati pendolari, professionisti, casalinghe, pensionati, insomma sono diventati anche loro regolari?
Forse si sono dispersi e il loro linguaggio è dilagato in questi anni sino a diluirsi completamente nei gruppi sociali più insospettabili.
Mi immagino commercialisti con le borchie, avvocati col trucco nero, medici con le magliette dei Sex Pistols e la tinta fatta in casa che cola negli occhi.
Mi chiedo: che fine ha fatto il punk?
Per rispondere bisogna capire cosa sia stato il punk e più in particolare cosa significasse questa parola qui in Italia, a Milano, nella Milano underground e proibita della Shake Edizioni, delle riviste stampate con la Xerox di casa, delle case occupate, della metro, delle tribù metropolitane.
È difficile entrare in un mondo del genere per chi è nato dopo: fa quasi impressione leggere del “6 politico”, delle scuole occupate, delle molotov. Sembra un’epoca preistorica, qualcosa che chi è nato come me in provincia non riesce nemmeno a immaginare.

Eppure Milano è ancora qui, è sempre all’avanguardia anche se in un modo diverso: accentra a sé ogni discussione quando si parla di società oppure di moda e ribolle ancora ad ogni novità bisecandosi in fazioni, esplodendo come i capelli dei veri punk di una volta, sanguinando.
Philopat con il suo “romanzo sul punk” ci porta dentro un’epoca che ancora oggi ha un’eco persistente nella nostra cultura.
Difficile da incasellare come tutto ciò che riguarda questa tematica, “Costretti a sanguinare” non è un romanzo sul punk, ma non è nemmeno un saggio. È un memoir gridato a squarciagola, è una testimonianza, una confessione, un testamento.
La forza di quest’opera sta senz’altro nella sua autenticità, che si riverbera anche nel linguaggio scelto per immergere il lettore in questo periodo: le frasi sono brevi, feroci, si susseguono come in un delirio ignorando i punti fermi nel tracciato sincopato dei trattini, che sulla pagina diventano quasi un itinerario, un elenco, un appunto preso al volo mentre si è furiosamente impegnati a vivere.
La vicenda narrata si dipana velocemente, volando sulle parole e sulle riflessioni come in preda a una strana ossessione che contagia subito anche il lettore più lontano dagli ideali punk. Si vuole conoscere la storia, si vuole capire, ma la regola di base è proprio che non c’è nulla da capire.
“Costretti a sanguinare” non vuole essere un lamento funebre di un movimento che ha da tempo superato la sua epoca d’oro, perché le sue parole traboccano di vita e riescono ancora, ad anni di distanza dalla pubblicazione, a ricostruire il fermento e la fertilità dei movimenti giovanili degli Anni 70.
L’esperienza punk in Italia, specie se letta da chi per ragioni ideologiche o anagrafiche non ha mai potuto viverla in prima persona, ha oggi un valore inestimabile proprio perché aiuta qualunque lettore a comprendere uno dei tasselli fondamentali di cui è composto il puzzle del nostro presente.
Accoppiamenti giudiziosi
Philopat ci parla essenzialmente della voglia di ribellione e del disagio di un’epoca, condensando lo spirito del tempo nella volontà di resistere di pochi autoproclamati emarginati.
È inutile dilungarsi in questa sede per spiegare di cosa sia stato il punk a Londra o nelle province più remote dell’impero: per capirlo è meglio affidarsi a chi l’ha vissuto completamente come Philopat o a chi l’ha inventato come Vivienne Westwood.
Mentre il compagno Malcom McLaren creava i Sex Pistols per scandalizzare la scena musicale internazionale, Vivienne Westwood gettava le basi per tutto ciò che sarebbe stata l’estetica punk per gli anni a venire.

A lei si deve l’introduzione nella moda di elementi fetish, spille da balia, magliette tagliate. Veniva tutto dal suo negozio al 430 di Kings Road, che ha cambiato nome più volte prima di approdare a World’s End, con l’iconico orologio che gira al contrario.
Come avevano ben compreso McLaren e la Westwood, il punk era essenzialmente questione di stile e di ribellione: ben lontano dal feticismo per le composizioni virtuose e cerebrali del progressive rock, la musica e la cultura punk erano qualcosa di grezzo e immediato. Celebravano la provocazione, lo scandalo, il “do it yourself”, con soluzioni artigianali e radicali per contrastare l’establishment di qualunque genere.
È in questo clima che trovano senso gli slanci più autentici che Philopat ricostruisce e dona ai lettori con il suo stile inconfondibile: come gli abiti della Westwood anche le vicende di riviste underground e immobili occupati sono storie fatte anche di incongruenze, di ingenuità, di “tradimenti” verso derive di diversa natura.
Che fine ha fatto allora il punk?
Vivienne Westwood è andata avanti, con la stessa voglia di stupire i benpensanti, verso nuove ispirazioni ripescate dal passato in chiave profondamente dissacrante: tartan, crinoline, corsetti, lingerie portata sopra i vestiti.
Gli altri punk hanno preso strade diverse. Qualcuno ha continuato a fare il dito medio alla borghesia e alla monarchia inglese, qualcuno ci ha creduto fino in fondo, qualcuno si è perso dentro storie di droga, qualcuno è morto.
Qualcuno, come John Lydon, alla fine ha fatto pubblicamente pace con la Regina Elisabetta e quando ha appreso della sua dipartita le ha augurato affettuosamente di riposare in pace.