Il mondo di internet è uno dei meno esplorati dalla letteratura: per paura del cambiamento, per ambizione all’eternità della propria opera, oppure per semplice snobismo, nessuno ne parla.
I social sono l’elefante nella stanza: sono sempre lì, dietro ogni autore ed ogni casa editrice, a casa, al lavoro, il web è diventato una presenza costante che finisce per assorbire una parte importante del nostro tempo, però tendiamo tutti a minimizzare: smetto quando voglio, non è vero che sono dipendente, è un passatempo, non è niente di importante.
Questa tendenza a derubricare una componente abnorme della nostra vita non fa altro che creare una voragine al centro di noi stessi: se il web non esiste e internet è un elemento superfluo e incidentale, dove finisce allora tutto il nostro tempo?
L’idea alla base di “Nessuno ne parla”, opera meravigliosamente originale di Patricia Lockwood, è proprio questa: parlare finalmente dei social e di internet nel loro stesso linguaggio. Ciò permette di immergere il lettore in un ambiente che gli è familiare ma solo attraverso uno schermo. Vederlo per la prima volta su carta provoca un disagio sottile, è lo smascheramento dei nostri piccoli segreti, della nostra vergogna.
Fa quest’effetto perché parla di qualcosa di molto intimo, qualcosa che ci illudiamo di poter controllare e che invece si mangia minuti e ore della nostra vita quotidiana con elementi stupidi che però ci assuefanno e ci garantiscono un riparo accogliente in ogni situazione.
I social infatti ci seguono, si insinuano nella nostra testa e ci cambiano in un modo così sottile da passare sotto silenzio.
La Lockwood non ne parla mai così apertamente, non punta dita inquisitorie, né esprime alcun tipo di giudizio. Semplicemente ci racconta la sua vita di utente dall’interno, e lo fa con una scrittura veloce e profonda che si adegua a questo habitat tascabile: è frammentaria, quasi epigrammatica, e si sviluppa per concetti e idee buttate sulla carta con la stessa nonchalance con cui si scriverebbe un tweet.

Forse mosaico di tweet è la definizione migliore per far comprendere lo stile di questa opera innovativa e provocatrice, che non ha paura di gettarsi fra le braccia di ciò che molti libri considerano una sorta di nemico naturale o di predatore.
Internet fa paura a tutti, affascina e atterrisce, indubbiamente, perché sembra avere una propria volontà: lo scopre anche la voce narrante del libro, una donna divenuta famosa per un tweet divertente, un profilo come tanti del “portale”.
Il portale è un elemento ambivalente e ubiquo, è sfondo e protagonista. Si tratta di un luogo simbolico e virtuale a metà fra Facebook e Twitter, che rappresenta idealmente tutta la categoria categoria di social che, negli ultimi anni, hanno reso la concisione un’esigenza. Bisogna essere veloci, non dilungarsi. Arrivare al punto.
Allora perché divaghiamo? Perché troviamo meme e video di gatti mentre attorno a noi il mondo sensibile va a pezzi, mentre la situazione politica apre crepe totalitariste sul fragile guscio della democrazia, mentre i nostri corpi si ammalano e tutto sembra perdere di senso?
Il romanzo in questo modo esplora con scabra eleganza la dicotomia reale-virtuale, dividendosi in due sezioni drammaticamente opposte: la prima imperniata sulla quotidianità a contatto col web, la seconda sul rapporto con la vita vera, con il dolore, con la carne.
Internet però è sempre presente, è l’aria che tutti respirano continuamente anche quando sono sovrappensiero: il Portale ambisce ad essere realtà più della realtà stessa, perciò la invade, la plasma, la contamina.
Allora come si può essere un corpo mentre tutto attorno diventa immateriale? Come possiamo esistere una volta che lo schermo diventa nero?
Opera attuale e fondamentale, “Nessuno ne parla” si candida per essere uno dei libri fondamentali per il nostro malandato presente, una guida, un’autodenuncia, un rituale misterioso e perfetto per dare corpo e voce a un’epoca tempestosa direttamente dall’occhio del ciclone.
Accoppiamenti giudiziosi
Le arti visive si rivelano più reattive della letteratura al mondo esclamativo dei social network: sono molti gli artisti che hanno provato, ognuno coi suoi mezzi, a raccontarci il loro modo di vivere nel reticolo virtuale dei like e dei follow: divertente e dissacrante è in questo senso l’opera di Nastya Nudnik.
L’artista e designer ucraina, infatti, nella serie “Emoji-nation” ha rielaborato alcune grandi opere del passato con ironici riferimenti al mondo dei social network e alle sue ossessioni: like, tweet, cuori.

I messaggi inespressi dei dipinti del passato acquistano la chiarezza e la prosaicità del nostro presente grazie alle emoticon e alle consuetudini grafiche con cui ogni giorno esperiamo noi stessi per inviarci agli altri come frecce, come spari in un vuoto spaventosamente ampio e fuori controllo.
Non bastano l’ironia e la furia iconoclasta, certamente, ma possono essere la miccia che innesca la volontà di decostruire il nostro mondo virtuale per poterci guardare dentro, per studiarne gli ingranaggi come si esaminano gli organi di un corpo alieno e stranamente familiare per capire meglio la realtà che ci circonda.