Leggendo Thomas Bernhard si avverte subito l’attenzione affilata con cui sceglie le parole. La sua prosa è un discorso nervoso, ricorsivo, debordante. Le parole però sono oggetti pesanti e fondamentali, anzi sono monoliti. Partiamo dunque dalle parole.
Perturbamento: la prima parola, la più importante, il titolo dell’opera. È una sensazione sottile, un disagio difficile da definire che attraversa la vicenda del narratore intento ad accompagnare il padre, medico condotto, nel suo giro quotidiano di visite.
Il narratore e il medico sono una coppia strana: non sembrano mai a proprio agio, hanno un rapporto difficile, non comunicano. A dividerli c’è un abisso di cui fatichiamo a discernere i confini.
Malattia: il medico comincia la propria giornata con una morte – laconicamente riassunta in un incipit fulminante quanto brutale – e prosegue in una spirale di malattia fisica, mentale e spirituale.
La cosa più bizzarra è che non farà quasi nulla: si limiterà a constatare, ad assistere, a procrastinare un processo di decadimento generalizzato dei viventi che sembra pericolosamente affine a quello della decomposizione cui vanno incontro le cose morte.
Incontrerà un’ostessa ferita a morte durante una rissa, un’anziana maestra moribonda, un imprenditore ossessionato dal vuoto “creativo”, un prodigio musicale deforme ridotto a vivere dentro una gabbia.
La successione di personaggi è una discesa all’inferno: sono esseri abietti, volgari, brutti sotto ogni aspetto. Non c’è commiserazione in questa galleria spietata di umanità. C’è disprezzo, un disprezzo generalizzato per il genere umano e per le istituzioni a cui si aggrappa per tentare di sopravvivere. I personaggi – protagonisti compresi – sono un ritratto desolante di cosa significa essere umani: significa mortalità, significa egoismo, significa violenza. La deformità del paesaggio si riversa implacabilmente nelle deformità del corpo e della psiche dei suoi abitanti: sono tutti malati, tutti disperati in attesa della morte.
Sono tutte persone che portano per strada il loro tormento e così
trasformano il mondo in una commedia, che naturalmente fa ridere. In questa commedia tutti costoro soffrono di piaghe di natura spirituale o di natura
corporea, e godono della malattia che li porta alla tomba. Quando ne sentono pronunciare il nome, non importa se la scena si svolge a Londra, a Bruxelles o in Stiria, essi si spaventano, ma cercano di non mostrare il loro spavento. Il vero spettacolo tutta questa gente lo dissimula in quella commedia che è il mondo. Quando si sentono inosservati, sfuggono sempre a se stessi rifugiandosi in se stessi.
Natura: la natura in questo libro è molto più di uno sfondo. È un paesaggio metafisico, sicuramente, ma è anche un protagonista invadente che genera da solo un’infinità di storie.
La natura è fatta di salite e discese e anche il romanzo si compone di percorsi scoscesi e difficili, in cui le distanze sembrano aumentare vertiginosamente. In questo modo il lettore, perdendosi nei sentieri tortuosi disegnati da Bernhard, costeggia sempre l’abisso.
Il romanzo stesso può essere visto come un’escursione sul bordo di un baratro: è al contempo una risalita verso il punto più alto della regione, il castello del folle principe Saurau, e una discesa vertiginosa dentro un gorgo di malattie destinato a culminare in un vulcanico monologo dello stesso principe, capace di riassumere in sé tutto lo spirito dell’opera.
Isolamento: la natura impervia e tortuosa dell’ambiente si ripercuote drammaticamente sui corpi e sulle menti dei suoi abitanti. Ogni cosa è difficile da raggiungere, così la scelta più naturale diventa quella della segregazione.
È una terra di estremi, divisa fra il caldo soffocante dei fienili e il gelo interiore del castello, fra il silenzio in cui alcuni uomini si rinchiudono per sfuggire da se stessi e il chiasso degli uccelli esotici tenuti in gabbia e poi strangolati dagli stessi proprietari.
La stessa solitudine si trova nel rapporto fra padri e figli: i primi impegnati a trasmettere alle generazioni future le proprie maledizioni ormai anacronistiche, i secondi a distruggere tutto ciò che è venuto prima.

Accoppiamenti giudiziosi
L’interazione fra ambiente, corpo e psiche è protagonista anche di due fra i quadri più famosi di Edvard Munch: L’urlo e L’ansia.
In queste opere il pittore norvegese si concentra su un determinato paesaggio di alto valore espressivo, un sentiero in salita sulla collina di Ekberg che sovrasta la città di Oslo.
Le linee sinuose del cielo e l’eterno conflitto dei colori complementari brutalmente accostati sulla tela creano una base perfetta per i soggetti di entrambi i dipinti: figure esangui, devastate, in cui le espressioni del viso ora apatiche ora apertamente disperate si riverberano come in un incubo nel paesaggio circostante.

L’assurdità del mondo, ben concretizzata dai colori impazziti dello sfondo, si abbina a un’umanità sempre più disumana, fatta di figure sole e indifferenti, che non riescono a intervenire nei drammi altrui ma semplicemente assistono alla disgregazione di ogni rapporto, a un’invincibile perdita di significato.
Anche in Bernhard questi temi traspaiono come vero perno della storia: una vicenda che rimanda costantemente alla caducità e all’insensatezza di ogni cosa.
Passato e presente sembrano sospesi nella Stiria di Bernhard: sono concetti a loro volta privi di senso, in un mondo sostanzialmente abituato a mischiarli e incapace di guardare avanti perché tenacemente aggrappato ad elementi anacronistici e ormai dolorosi.
Sia Bernhard sia Munch padroneggiano alla perfezione l’arte di rappresentare il perturbamento comune a spirito, corpo e ambiente e lo fanno con opere di difficile interpretazione, che lasciano aperti molti interrogativi pur disegnando con tangibile precisione la bellezza e la bruttezza dell’animo umano, in ogni sua forma.