“La veglia all’alba” di James Agee

Sia lode ora a James Agee: ubriacone, lacerato, anacronistico.

Uomo di eccessi e di rara maestria, spaziò con grazia brutale dal reportage narrativo agli schermi di Hollywood in una spericolata ebbrezza che lo portò a divampare furiosamente e poi spegnersi, a soli quarantacinque anni, sul sedile di un taxi che lo stava portando dal suo medico.

La veglia dell’alba” è considerato il suo capolavoro. Vide la luce nel 1951, in una parentesi dorata fra la fine della Seconda Guerra Mondiale e un futuro opaco ma promettente. È un anno ricco, un anno di opere importanti: l’esile romanzo di Agee competerà per il National Book Award con “Requiem per una monaca” di Faulkner, con “L’arpa d’erba” di Capote, con il kolossal bellico “Da qui all’eternità” di Jones, che poi si aggiudicò senza sorprese il premio.

In questa competizione il nostro Agee si scontrò – metaforicamente e non solo – anche con un peso massimo come “Il giovane Holden” di Salinger, poi assurto a furor di popolo come bandiera del romanzo di formazione contemporaneo grazie ai suoi vattelappesca, alle anatre, al protagonista divenuto il proverbiale ritratto di un’eterna giovinezza capace di arrivare immutata sino al nuovo millennio.

Di Holden notoriamente si ricordano tutti: lo fanno leggere a scuola, gli dedicano tesi di laurea e approfondimenti, gli consacrano scuole di scrittura e case editrici. Il suo nome è diventato quasi uno slogan, un certificato da appendere alla parete dietro la scrivania. Tutti si ricordano di Holden perché è diventato un’icona, nel senso più bizantino del termine: una bella figura, su sfondo dorato, venerata da schiere di fedeli.

Di Agee chi si ricorda?

La sua veglia all’alba è una storia breve ma complessa, inaccessibile, fuori dal tempo: parla di cose e ambienti che non sembrano interessare più a nessuno, e lo fa con una voce evocativa che sprofonda il lettore fra i simboli e gli echi ovattati di una torbida introspezione notturna.

La vicenda non scorre ma sgorga come sangue da una ferita frastagliata: a fiotti irregolari, faticosamente, si fa strada fra tessuti lesionati con una dignità dolorosa e ancestrale. Gli eventi sono pochi, anzi pochissimi: il tempo della notte si dilata per un centinaio di pagine in una cartografia allucinata dell’anima del protagonista.

Non ci sono scolari linguacciuti a tenere alto il morale, non c’è quasi luce: è notte e gli studenti di un collegio religioso si alzano per la veglia di venerdì santo.

I ragazzi, sospesi fra notte e giorno, si dirigono a gruppi nella chiesa, si inginocchiano, pregano. E pensano.

In questo si esaurisce la prima parte del romanzo: nei pensieri pastosi e circolari di un ragazzo ferito a morte dalla sua stessa fede, straziato fra il desiderio di ascendere a un mistero divino che non riesce a comprendere fino in fondo e la necessità fisica di essere corpo, fra disprezzo di sé stesso e della propria carnalità e bisogno intimo di elevazione.

Dan Flavin, Untitled (for Frederika and Ian) 3 (1987)

L’alba definisce così un paesaggio liminale fra opposti che si compenetrano e dividono in un eterno conflitto e crea una significativa cesura fra le due sezioni del romanzo.

Nella seconda parte, in radicale contrasto con la prima, il protagonista trasgredisce alle regole, morso dal fuoco inestinguibile della propria fede, e compie un percorso iniziatico che lo porta a un dialogo intimo con la morte.

La sua formazione è un tragitto accidentato: si nutre del mistero che s’innalza al limitare della vita umana. Lo avvertiamo nell’asfissia durante l’immersione (battesimale?) in un lago e perdura fino all’uccisione di un serpente – un serpente innocuo e simbolico, un animale sinistro ma innocente, emblema di una complessità interiore che le parole non riescono a esaurire.


Accoppiamenti giudiziosi

James Agee ebbe per tutta la vita un rapporto teso con la fede: pur non essendo formalmente religioso, continuò a scambiarsi lettere per tutta la vita col suo insegnante, Padre James Harold Flye.

Nel suo romanzo si riesce a intuire sempre questo strappo interiore, che diventa protagonista nel momento in cui le elucubrazioni del protagonista danno corpo all’affascinante rovina della propria anima antichissima nell’attimo in cui viene gettata nel trafelato avanzare delle epoche.

Per esprimere questo contrasto Agee lavora con la luce e con il buio, coi loro confini che confondono e affascinano l’uomo fin da quando ha imparato a servirsi del fuoco per rubare un po’ di giorno al sole e dissipare le tenebre.

La luce è un medium complesso da gestire: è dotata di regole proprie, è difficile da comprendere, ma proprio per questo motivo si rivela anche profonda fonte di ispirazione per artisti come Dan Flavin.

Flavin condivide con Agee molti punti di contatto: fu anch’egli benedetto da una vita stravagante e fu reduce da un’educazione religiosa fiorita poi in una relazione complicata con tutto ciò che è sacro.

I due artisti subiscono – ognuno a modo proprio – la profonda fascinazione della luce e del suo significato simbolico, indissolubilmente legato al bisogno di assoluto e di elevazione a cui anche la religione prova a rispondere: non è un caso che i primi lavori di Flavin si intitolino proprio “Icons”.

Dan Flavin, Untitled (1997) – Milano, S. Maria Annunciata in Chiesa Rossa

Il suo lavoro più vicino allo spirito de “La veglia dell’alba” è Untitled, installazione permanente visitabile a Milano, a Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa.

Dialogando con l’architettura della chiesa, la luce verde, blu, rosa, dorata e ultravioletta accompagna il visitatore in un percorso che è al contempo fisico e soirituale: la successione cromatica che tinteggia e definisce la navata, il transetto e l’abside richiama la progressione naturale della luce dalla notte all’alba e quindi al giorno.

È illuminazione e ascesa, è trionfo.

L’autore, da sempre parco di spiegazioni, non ha voluto aggiungere nulla alla propria opera, lasciando parlare i colori e le ombre.

Come in Agee, anche nell’installazione di Chiesa Rossa la luce si fa porta fra i mondi, veicolo di risalita verso qualcosa di alto e inconoscibile, ma anche faro per l’uomo moderno nell’esplorazione di sé, dei propri angoli bui, della propria fine.

Come il protagonista de “La veglia dell’alba” davanti a una locusta dall’aspetto antico e demoniaco, capace di racchiudere in sé la vecchiaia del mondo e la potenza di un embrione, anche il visitatore dell’opera di Flavin non può che interrogarsi sul senso di ciò che sta osservando e chiedersi, confuso e illuminato, se i suoi passi scettici e maledettamente umani non lo stiano conducendo lontano dalle rotte stantie della religione organizzata e dei suoi esponenti, verso qualcosa di indefinibile, interiore e supremo.



La veglia all’alba

James Agee – il Saggiatore, 2016


Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...