Régis Jauffret gode della stessa vista assoluta e dolorosa che avrebbero due occhi privati delle palpebre: ogni sguardo coglie tutta la miseria e la bassezza del genere umano con precisione chirurgica.
Questo suo dono diventa evidente nei piccoli capolavori che compongono le sue Microfictions, ma risulta ancora più sconcertante nel precedente lavoro di più ampio respiro, icasticamente intitolato “Autobiografia”.
Si tratta di un gioco, un titolo provocatorio che nasconde sotto una patina di noia e di ordinarietà una delle storie più atroci e spietate che si possano leggere.

L’autore, in questo libretto enorme, con un’invadente prima persona ci parla come se fosse il suo personaggio, gettandoci nel gorgo di una confessione lunga quanto una vita intera, che attraversa fra abusi, raggiri, omicidi l’esistenza di un’infinità di donne.
Le donne sono il vero fulcro della storia: corpi da possedere, sfruttare, sgualcire, esaurire, buttare via. L’uomo che ci parla è la nostra parte peggiore, una specie di caricatura del maschio moderno: non ha vergogna di nulla, non censura nessuno dei suoi pensieri più disturbanti mentre si sprofonda sempre di più in un abisso di perversione e di egoismo.
Questo protagonista ripugnante ricalca, con la sua voce sprezzante e sconfinata, lo spirito che si agita dentro i tipici personaggi di Jauffret: sono uomini e donne senza scopo, ridotti a un egoismo primordiale che li porta a una vita squallida e crudele, sono opportunisti che vivacchiano aggirandosi per un mondo che fondamentalmente non capiscono e con cui non riescono a relazionarsi se non tramite lo sfruttamento e la sopraffazione.
La cosa più agghiacciante è il tono sbrigativo, distaccato, a tratti sereno con cui ci viene presentato ogni genere di efferatezza. È tutto preda di un ritmo serrato e paranoico, tutto stranamente familiare e liscio, tutto ordinato nella più lucida delle follie. La mancanza di spiegazioni ci lascia devastati come davanti alle nostre paure più pure e indomabili: perché succede tutto questo?

Si tratta solo di nichilismo, nulla ha veramente senso?
Jauffret sta in silenzio, non dà risposte. Ci butta addosso la sua storia come una secchiata di acqua gelida e resta a fissarci mentre moriamo assiderati fra i silenzi dei suoi racconti, tra i paragrafi che si susseguono con l’efferatezza del Divin Marchese e la grazia minimalista di Raymond Carver.
In questo panorama devastato però si avverte il profumo di un vero amore: quello dell’artista verso la scrittura.
A metà esatta del libro, fra il romanzo “Autobiografia” e la raccolta di racconti “Giochi da spiaggia”, troviamo un breve corsivo dell’autore, una lettera d’amore alla scrittura che sembra lasciare uno spiraglio per permettere a una flebile luce di entrare in questo universo cupo.
È l’atto creativo a strapparci dall’assoluta apatia di una vita destinata a esaurirsi in un catalogo di crudeltà, a renderci diversi dalle macchine o dalle belve impazzite dentro le loro gabbie da circo.

La sua scrittura è acido, è pulizia che ferisce: sembra che l’atto di togliere non impoverisca ma anzi raffini la qualità superba della sua narrazione e la sua capacità di penetrare a fondo come una lama dentro le anime che stanno nascoste sotto ogni storia.
Accoppiamenti giudiziosi
Il metodo di Jauffret ricorda per certi versi quello del grande fotografo Bruce Gilden, noto soprattutto per i suoi particolarissimi ritratti.
Gilden, come Jauffret, ricerca una propria originalità attraverso la semplificazione e la rimozione di ciò che non è utile: si concentra infatti sui volti, che riprende quasi di sorpresa, puntandogli aggressivamente l’obiettivo addosso come se fosse un’arma carica.

È questa brutalità a a permettergli di raggiungere un grado mai visto di autenticità, come se la macchina fotografica gli concedesse per un solo istante di catturare un concentrato – al contempo veritiero e sconcertante – dell’intera vita di un soggetto.
Nelle foto di Gilden ci sono brufoli, rughe, denti storti: c’è tutta la bruttezza del genere umano ripresa da vicino, quasi dall’interno, ma c’è anche una precisa scelta stilistica, quella di ricostruire nel modo più immediato possibile ciò che ci rende umani.
Meschinità, fallibilità, egoismo? Forse sono solo pregiudizi e forse l’arte di Gilden – di sicuro estrema, provocatoria – serve per sviluppare un nuovo senso, per riuscire a guardarci finalmente allo specchio senza essere terrorizzati dalle brutture dell’esistenza e dalla nostra stessa fragilità.
Le opere di Jauffret e di Gilden sembrano quasi parlarsi, costituendo l’una il canto fermo dell’altra nell’esplorazione che conducono insieme, parallele e concordi, verso gli abissi più inaccessibili dell’animo umano.

Autobiografia con Giochi di spiaggia
Régis Jauffret – Edizioni Clichy, 2022