“Tempo di uccidere” di Ennio Flaiano

Unico romanzo di uno scrittore enorme, piccola gemma incastonata in un corpus di prose brevi e brevissime, sceneggiature ed elzeviri, “Tempo di uccidere” è un oggetto narrativo anomalo tanto per il lettore odierno quanto per l’ambiente letterario che lo vide nascere e aggiudicarsi il Premio Strega nel 1947.

La guerra era finita da poco, era tempo di rinascita e nessuno aveva voglia di ricordare i lati più spiacevoli del passato nazionale: il fascismo, le colonie d’Africa e l’esercito sembrano accordi stonati in un Paese che sta facendo di tutto per lasciarsi alle spalle gli anni più crudeli della propria storia.

Eppure Flaiano ci vuole parlare proprio di questo: vuole costringerci dentro qualcosa di scomodo, vuole portarci con sé in una terra distorta dal ricordo, in un sogno che diventa ora grottesco e surreale, ora asfissiante.

La trama del romanzo è scabra come il paesaggio devastato in cui l’intera narrazione è ambientata: nel clima arido e straniante di un’Etiopia confusa e addormentata, un tenente italiano s’imbatte in una ragazza del luogo e decide di passare la notte con lei. Da quel momento, a partire da un tragico incidente, gli eventi si rincorrono in una successione rapida e serrata, da cui sembra impossibile sottrarsi.

Dietro il tenente e i suoi commilitoni, il vero protagonista – anzi il motore della storia – è il senso di colpa del colonizzatore, che non si sente un mostro ma quasi una vittima costretta a perpetrare il male voluto da un destino beffardo e cattivo che l’ha voluto dominatore e sfruttatore.

È anche una storia di ossessione e paranoia, qualcosa di tremendamente moderno che irrompe con la forza distruttrice di un Novecento insanguinato nell’eternamente languida terra africana, fatta di consuetudini e tempi sospesi, di morti e di sopravvissuti al lento macinare del tempo.

Ma cos’è la colpa, cos’è il destino in questa propaggine di civiltà affogata in un passato incomprensibile?

Il senso di abbandono permea i soldati e sembra sigillare le loro azioni – gli scherzi, noie, le atrocità – in una sorta di bolla destinata a galleggiare nella memoria senza mai riversarsi veramente nella vita vera, in quell’esistenza tremolante come un miraggio che attende tutti al rientro a casa.

Non c’è eroismo nei militari che Flaiano imprime su carta. Ognuno a modo suo sembra disilluso, annoiato o disperato per una mancanza di senso che lentamente prende il possesso di ogni cosa: non servono imprese eclatanti per raccontare i riflessi umani della guerra, né per descrivere il rapporto difficile e controverso da vincitori e vinti.

Là dove parte della critica contemporanea vide un protagonista debole, il lettore di oggi può forse scorgere un personaggio vertiginoso e inquietante, che somiglia in modo sinistro a tutti noi: presunti innocenti, ingranaggi del sistema, formiche che camminano in fila verso i loro cunicoli.

La sua è una discesa negli inferi della propria condizione umana, una corsa disperata sull’orlo di un precipizio che sembra volerlo inghiottire ad ogni passo.

L’intero romanzo può essere visto come una critica sottile e spietata alla retorica del colonialismo, che voleva le donne africane innocenti e sessualmente sottomesse, gli indigeni vili e arretrati, i conquistatori prodi, civilizzati e geneticamente destinati al comando.

Questo sogno perverso di conquista si sgretola però in fretta davanti ai soldati, inchiodati dalla guerra ad un suolo arido che li odia e costretti a vivere ogni giorno con gli effetti della loro stessa dominazione. Seminati nella narrazione ci sono poi simboli e storie che susseguendosi sulla pagina come visioni riempiono di crepe l’edificio decadente della supremazia europea sul mondo: un orologio indolente che si ribella al tempo, una strage di innocenti, un dente malato.

Tempo di uccidere” è un romanzo febbrile e amaro, che ancora oggi non perde mordente anzi sembra piantare con maggiore tenacia le sue unghie invisibili e taglienti nella calma apparente della nostra civiltà.


L’Edizione

Disponibile oggi nell’elegantissima collana “Fabula” di Adelphi, questo romanzo vide la luce grazie alla lungimiranza di Leo Longanesi, che lo commissionò a Flaiano per la propria casa editrice con l’esplicito obiettivo di strappare il primo Premio Strega ad Alberto Moravia.

Passeggiavamo cortesemente, una sera di dicembre, quando si fermò e mi disse: “Mi scrive un romanzo per i primi di marzo?”. Io scoppiai a ridere, ma lui diceva sul serio. I suoi occhi vivi e lucidi, sempre pieni di simpatia e di indignazione, mi fissavano con sorpresa. Quando ebbi detto (per dire qualcosa) come vedevo un romanzo, una storia assolutamente fantastica, tanto fantastica che non la immaginavo in Italia, ma in Africa, nell’Africa di Erodoto e Solino, Longanesi disse: “Se comincia subito le do un anticipo”

Ennio Flaiano

Flaiano inizialmente l’aveva progettato con altri titoli (“Il coccodrillo”, “Il dente” o ancora “La scorciatoia”), ma alla fine su sprone dell’editore si orientò verso il titolo più altisonante con cui oggi conosciamo la sua grande opera.

La prima edizione Longanesi, un oggetto delicato e introvabile, ormai di notevole valore, ha conosciuto nel tempo diverse eredi fra cui la bella edizione con copertina rigida pubblicata da Rizzoli nel 1973 nella sua collana ammiraglia, “La scala”.


Accoppiamenti giudiziosi

Flaiano in questo romanzo dimostra una maestria assoluta nell’arte di rendere su carta il disagio collettivo di una generazione esposta al male sin dalla più tenera età e quindi adusa al senso di colpa.

Lo fa nelle forme che più gli sono congeniali: con periodi fulminanti, aforismi di gusto epigrammatico, riferimenti simbolici.

Un’analoga abilità nella descrizione del senso di colpa può essere trovata nell’opera – questa volta squisitamente grafica – di Miles Johnston.

L’artista inglese, vero maestro dello schizzo a matita, si è dedicato a più riprese alla raffigurazione grafica degli stessi sentimenti che permeano l’opera di Flaiano.

Per farlo anche Johnston si stacca dalla realtà, preferendo come palcoscenico delle sue visioni un ambiente surreale in cui l’interiorità sembra plasmare anche il paesaggio circostante.

Trovano così una realtà fisica le sensazioni incorporee che aleggiano sopra l’Abissinia raccontata di Flaiano: la paranoia, la vergogna, la sofferenza del conquistatore diventano corpi nudi e deliranti, creature fatte di carne e sogno e grafite, assemblate con la cura del vero narratore in una critica spietata a noi stessi e alle nostre debolezze più profonde.


Tempo di uccidere

Ennio Flaiano – Adelphi, 2020


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