Immaginate di essere nati in un mondo ordinato e sbagliato, di essere piccoli ingranaggi in un meccanismo che funziona senza far bene a nessuno. Avete divise e parate e modi di dire tanto usati da sapere di stantio. Avete piccole libertà, enormi doveri, vi sentite osservati e forse lo siete, forse qualcuno sta prendendo nota anche adesso di tutto quello che fate. Ora chiudete gli occhi. Respirate. Quando riaprirete pian piano le palpebre il cambiamento vi accecherà. La vostra casa sarà la stessa, le strade saranno le stesse, eppure qualcosa sarà cambiato radicalmente.
Dev’essere questo che hanno provato gli abitanti della Germania Est all’alba della caduta del muro. Un senso di libertà inspiegabile, forse anche smarrimento nella sconfinata possibilità offerta da un nuovo paese.
Tutto è lo stesso eppure tutto cambia, si corrompe. Anche le amicizie più solide, come quelle nate fra i banchi di scuola, come i rapporti inossidabili fra i ragazzini di Lipsia, cresciuti fra i casermoni in stile sovietico e i fazzoletti colorati da Giovani Pionieri
“Eravamo dei grandissimi” ci parla di un gruppo di ragazzi come tanti: il boxeur Rico, l’inebriato Mark, il tormentato Pitbull, il piccolo Walter, il narratore Daniel.

Ciò che caratterizza la loro gioventù è il trovarsi sul crinale scosceso fra due epoche: da un lato la DDR, dall’altro la terra inesplorata della libertà, l’Occidente, il mito dell’America.
Quella di Daniel e dei suoi amici è una storia semplice eppure sfaccettata, che oscilla fra l’ebbrezza scalcagnata di Bukowski e l’introspezione sbandata di Nick Cave, fra “fasci” e “zecche”, discoteche abusive, palazzi occupati, droga, alcool, prostitute, furti d’auto. I ragazzi crescono, lottano, si scontrano e s’inventano insieme un modo di sopravvivere dentro un mondo che sembra in procinto di decomporsi.
Forse anche loro si stanno decomponendo, come le istituzioni che li lasciano liberi e orfani, forse la fine della DDR non apre altro che un nuovo abisso, un inferno diverso ma ugualmente doloroso in cui anche l’amicizia finisce per perdere senso.
Clemens Meyer, uno degli autori più promettenti del nuovo panorama europeo, ci consegna una storia che riesce a coniugare la dolcezza del romanzo di formazione con la follia di Trainspotting, addentrandosi senza pudore dentro un vero relitto del Novecento: la Germania divisa e smarrita in cui vaga un popolo che sembra aver perso lo scopo e le illusioni che servono per vivere.
È impossibile non innamorarsi di questi ragazzi teneri e violenti quando raggirano una vecchina e poi la aiutano a far visita alla tomba del marito, quando ritrovano l’amica di cui tutti erano innamorati in un locale di spogliarello, quando si ubriacano e si consolano e si picchiano perché non vogliono crescere, invecchiare, perdersi e morire da soli.
Meyer compone così, con un vorticare di capitoli che diventano quasi storie indipendenti, un romanzo toccante e spietato sul senso dell’amicizia che si annida angoli bui della Storia e ci dona uno sguardo autentico e disincantato sul passato recente del nostro continente.
Accoppiamenti giudiziosi
Oltre all’amicizia, vero perno attorno a cui ruota l’intera vicenda fatta di voci dissonanti e di tempi intrecciati, il libro pone come si diceva questioni interessanti sul tema della libertà.
Sin dalle prime pagine si avverte infatti come lacerante il contrasto fra l’impostazione sovietica e quella occidentale: la mancanza di libertà diventa quasi tangibile in un’organizzazione soffocante della quotidianità a partire proprio dalla scuola.
Una volta terminata l’esperienza della DDR, tuttavia, la libertà viene gettata addosso ai protagonisti come un dono inatteso e portentoso, qualcosa di mirabile e pericoloso allo stesso tempo. Cosa farsene della libertà in un paese devastato, in una società ben lontana dalle teorie ottimistiche ed utopiche dei paesi occidentali?
I protagonisti si abbandonano così a una sorta di ebbrezza che cancella il tempo, anzi lo riassume in un unicum in cui sembra possibile muoversi a proprio piacimento (dopotutto siamo liberi di far tutto, no?), e si lasciano cullare da una mancanza di scopo tanto rilassante quando terrificante.
È proprio dalla libertà, poi, che si genera lo stato di euforia distruttiva che porta i ragazzi di Lipsia a perdersi in un mondo divenuto improvvisamente troppo vasto per essere affrontato razionalmente. Ci sono troppe possibilità? Si può fare veramente tutto?
Queste domande richiamano alla mente una vecchia performance di Marina Abramović intitolata “Rhythm 0“, in cui l’artista per sei ore si metteva a disposizione, come una marionetta, del suo stesso pubblico.

L’allestimento era essenziale: la stessa Abramović, inerte, ferma in una stanza della galleria Morra di Napoli, e 72 oggetti (fra cui una rosa, delle forbici, una pistola) disposti su un tavolo con le seguenti istruzioni:
- Ci sono 72 oggetti sul tavolo che possono essere usati su di me nel modo in cui desiderate
- Io sono l’oggetto
- Mi assumo completamente la responsabilità di quello che faccio
- Durata: 6 ore (dalle 20:00 alle 2:00)
Il pubblico, gravato dalla piena libertà che piano piano comprendeva di avere nei confronti del corpo dell’artista, si è ovviamente abbandonato dopo una prima esitazione ad atti sempre più invasivi ed atroci, tagliando, pungendo e persino minacciando con la pistola carica la performer. Al termine dell’evento, la Abramović ha ripreso ad essere una persona, causando imbarazzo nei presenti, che si sarebbero allontanati e in alcuni casi avrebbero anche contattato la galleria per esprimere il proprio rammarico per quanto accaduto.
La questione più ingombrante da digerire riguarda proprio i concetti di libertà e responsabilità: da un lato abbiamo un’artista che si fa oggetto, si mette a disposizione degli altri come farebbe una cosa inanimata, assumendosene però piena responsabilità, dall’altra abbiamo il pubblico che, pur essendo composto di persone vive e razionali, si sete sollevato da ogni imperativo morale, libero di dare sfogo ad ogni istinto per il semplice fatto di poterlo fare. La performance diventa così un’occasione irripetibile per fare cose che altrimenti sarebbero proibite: toccare, succhiare il sangue, ferire un altro corpo.
Come dopo la fine di un regime oppressivo, anche in questo caso i visitatori sono sembrati in alcuni casi accecati dall’enorme ventaglio di azioni esercitabili senza conseguenze: allora sono la stranezza della situazione e la sensazione di libertà assoluta a dare alla testa? O forse è tutto solo un metodo per liberarsi degli strati di convenzioni sociali e regole che celano a malapena la nostra vera natura?

Eravamo dei grandissimi
Clemens Meyer – Keller, 2016