“Gioventù cannibale” a cura di Daniele Brolli

Sono passati 25 anni da quando un meteorite cannibale si è abbattuto sulla narrativa italiana cambiandola per sempre.

Gioventù cannibale” all’epoca era solo il titolo di una riuscitissima antologia di racconti curata da Daniele Brolli, oggi invece è diventato un termine cult, sinonimo di una corrente letteraria, di un certo modo macabro ed esagerato di guardare alle cose, di una critica corrosiva al mondo in cui viviamo e ci adagiamo.

Ma cos’è un cannibale? È ancora giovane dopo tutto questo tempo?

Nel corso degli anni il cinema e la televisione ci hanno abituati ad essere esposti alla violenza e in questo modo ci hanno progressivamente desensibilizzati, come gengive inermi sotto anestesia appena prima di finire sotto le grinfie di un dentista spregiudicato.

Eppure, nonostante gli ettolitri di sangue che ci sono stato riversati addosso in questi ultimi cinque lustri, la lettura di “Gioventù cannibale” riesce ancora a rivelarsi un’esprienza spiazzante.

Ci troviamo davanti a un crescendo di orrore che appare ora camp ora illuminante nella sua mistura tossica di cronaca nera e perversione: canguri violenti, droghe, modelle fatte a pezzi, sicari calabresi, supermercati, film porno, culti deviati, balli sfrenati abbracciati a un cadavere sbudellato.

Nella raccolta – come ricorda il curatore nella sua prefazione – c’è un brulicare di efferatezze che spaventa proprio perché senza movente, senza logica.

La violenza esce così da un contesto utilitaristico in cui è facile, per qualunque Tenente Colombo o Jessica Fletcher, ricostruire i passi che hanno portato l’omicida a commettere il suo delitto.

Non ci sono cause se non uno spaesamento generale, una perdita di futuro: i giovani del 1996, non dissimilmente da quelli che li hanno seguiti nel nuovo millennio sino ad oggi, avvertivano chiaramente questo eccesso di passato e di esperienza, questa erosione dell’avvenire.

Cosa creare di nuovo, se non c’è più un futuro in cui credere?

Ogni atrocità sembra già provata, ogni eccesso di sangue e visceri sembra qualcosa di desueto, una vecchia moda passata in fretta.

Allora, se niente ha senso, bisogna spingersi brutalmente in avanti per sperimentare qualcosa di ancora più elevato, ancora più atroce. Incesto? Cannibalismo? Quale altro tabù?

Alla fine si arriva sempre a un punto in cui tutto è già provato, collaudato, ruminato.

È qui che si innesta l’immaginario dei Cannibali, la loro voglia sovversiva di distruggere ogni pudore, di svelare l’abisso allucinato che si è scavato in ognuno di noi.

Fra gli ottimi racconti selezionati spicca in particolare quello di Matteo Galiazzo, vero fuoriclasse della narrativa breve, che in questo contesto confeziona un oggetto narrativo profetico e disturbante, in cui una ragazzina decide di fondare un nuovo culto che veneri, in vece di Cristo, un brutale omicidia colpevole dell’assassinio e dello stupro delle sue sorelline.

Leggendo oggi le sue pagine si può vedere – riassunta in poche righe – la summa di ogni tragedia contemporanea, in grado di unire con delirante coerenza il fenomeno del complottismo con quello ben più antico del culto per il sangue:

E anche quando sentono una buona notizia tendono a non fidarsi troppo, a mettere in dubbio le fonti, a immaginare complotti che imbrigliano tutto il sistema delle comunicazioni. […]

A ogni catastrofe che accade, invece, io lo vedo, una felicità sotterranea […] li riempie.

Matteo Galiazzo, Cose che io non so

Accoppiamenti giudiziosi

L’estetica cannibale deve molto al mondo del cinema, oltre che alla televisione. I riferimenti pop sono il materiale vivo con cui le storie vengono edificate in tutto il loro macabro splendore: ogni dettaglio è ripreso dalla videocamera e filtrato attraverso uno schermo. Le scene perverse e spaventose sono allestite come in un film di Tarantino, volutamente impastando insieme trash e violenza per imitare – e irridere alla perfezione – il nostro voyeurismo di fronte alle tragedie e la nostra fame primordiale di ferocia.

Dettaglio della locandina di Natural Born Killers (1994)

Il film che forse incarna meglio l’ironia nera e la critica spietata dei Cannibali al mondo dell’informazione e dell’intrattenimento è “Natural Born Killers” di Oliver Stone.

Anche in questo caso è evidente la firma di Quentin Tarantino, autore del soggetto alla base del film, che permea l’intera pellicola di un’atmosfera allucinata in cui la violenza assurda viene accettata come motore nascosto di tutta la nostra vita a partire proprio dai casi di cronaca.

La realizzazione di Oliver Stone ha poi rimaneggiato pesantemente la storia virando dal black humour tarantiniano a un personalissimo eccesso di violenza che punta il dito, oltre che contro i serial killer protagonisti, anche contro il mondo dei mass media che li rende nel corso de film vere e proprie star.

Un film difficile che ha diviso la critica, come del resto anche “Gioventù cannibale”, perché attinge alle perversioni che ci accomunano tutti in quanto spettatori in qualche modo complici delle tragedie cui assistono.

Esiste uno spettacolo senza qualcuno che guardi?

L’esibizione della violenza diventa così un modo per affrontare il terribile vuoto che ognuno di noi sente, ogni tanto, mentre guarda lo scorrere delle scene o delle notizie sullo schermo del televisore, un riempitivo colorato di rosso fra due interminabili spazi pubblicitari.

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