Persone fatte di sabbia, di caramelle gommose, di ramoscelli.
È l’incubo di un bambino, “La carne” di Emma Glass, opera prima di folgorante bellezza e strabiliante forza espressiva.
L’ambientazione che fa da cornice a un insieme eterogeneo di personaggi bizzarri è così ordinaria da fare paura: ci sono una famiglia normale, una scuola normale, un normale giro di amicizie attorno all’adolescente Peach, creatura vegetariana e vegetale, pelle di pesca tesa a celare con uno strato di polpa il duro arido del nocciolo.
Il perturbante che scorre sommerso sotto pagine graffiate, scritte in una lingua giovane e brutale, è incarnato nella figura ambigua dell’uomo-salsiccia che perseguita la protagonista.
Il libro si apre a violenza conclusa, con una Peach dilaniata che si avvia verso casa e inaugura un periodo di allucinato terrore in cui stalking e cibo si mischiano e contaminano a vicenda in una straniante sovrapposizione di orrori.
L’amalgama di eventi appare coerente, incalzante, spietato: sappiamo tutti come andrà a finire questa storia di fame e di nausea. Eppure andiamo avanti a scavare nella polpa dolente del trauma, senza saziarci di una spiegazione e di un epilogo rischiarante fino all’ultima pagina.
Il modo in cui la Glass tratta i suoi personaggi è folle e coerente: i materiali di cui sono composti si staccano subito dalla metafora e diventano tangibili, diventa tutto carne nell’immaginazione fiammeggiante dell’autrice mentre compone, coi ritagli di un mondo familiare, un quadro disturbante e distorto.
Un’opera veloce e dolorosa come una coltellata, che ci attraversa la vita fulminea prima di scavarci addosso un abisso in cui dubbio e consapevolezza si amalgamano e confondono.
Accoppiamenti giudiziosi
La capacità di giocare coi materiali della Glass ricorda molto la maestria di Tom Deininger.
La materia è al contempo carne e pensiero: ognuno è ciò di cui è composto, a prescindere dalla forma che può assumere grazie alla prospettiva.

Le opere di Deininger provocano facendo leva sulla complessità strutturale che diventa forma semplice e facilmente decodificabile. Ci sono bambole, reti, pezzi di plastica, tappi di bottiglia, cavi. La loro unione si sviluppa in modo contorto e disegna ritratti, paesaggi marittimi, animali.
Non facciamo fatica a intuire le forme, eppure sappiamo che è spazzatura. Sembrano uccelli e volti ma sono rifiuti nobilitati solo dai nostri occhi e da uno strano inganno della prospettiva. Allora forse è da questa metamorfosi che discende l’enorme potenza espressiva dei materiali di scarto?
La corporeità delle opere di Deininger, come dei personaggi di Emma Glass, appare da subito frastagliata e difficilmente classificabile. Il materiale condiziona la lettura da subito e impone una traccia, un senso in grado di pilotare la lettura, un gusto di fondo che persiste.
La materia da mezzo espressivo diviene spunto per scavare e andare a fondo, analizzare ogni componente singolarmente, come un catalogatore perduto dentro un museo, per comprendere meglio la complessità dell’insieme e imparare ad avere un nuovo sguardo verso le cose che formano il nostro mondo.