“Sorry for your trouble” è qualcosa che in Irlanda si dice ai funerali, qualcosa di vicino al porgere le proprie condoglianze.
Mi dispiace per il tuo dolore sarebbe una traduzione appropriata, intesa però con una sfumatura leggermente diversa perché trouble significa problema, difficoltà, ma anche disturbo o guaio.
Scusate il disturbo è quindi un modo molto discreto per affacciarsi al dolore degli altri, come entrare in punta di piedi in una casa ridotta a macerie: mi dispiace per il tuo dolore.
Forse è un po’ questo il senso: non ci si dispiace tanto per il caro estinto quanto piuttosto per chi resta, per i suoi problemi che alla fine sono i problemi di chiunque.
Perdita, vecchiaia e abbandono sono però solo alcune delle corde che Richard Ford suona magistralmente in questa raccolta intima e onesta, in cui il suo talento da storyteller risplende in tutta la sua crudezza, come nei suoi altri lavori di più ampio respiro a partire da Sportswriter.
I personaggi di Ford li conosciamo bene: sono persone normali, gente che ci capita di incontrare mentre camminiamo o mentre siamo in fila al supermercato. Forse siamo anche noi personaggi di Ford quando ci guardiamo allo specchio e capiamo di essere diventati più simili ai nostri genitori di quanto vorremmo.
La raccolta che ci propone negli anni della maturità è una silloge adulta, maschile, pura.
C’è il cuore selvaggio degli uomini sulla punta della penna di Richard Ford: non importa se sia quello di un artista o quello di un avvocato, resta sempre qualcosa di fragile e umano che solo con le parole giuste si riesce ad analizzare fino in fondo.
I racconti di questa raccolta hanno sempre un po’ d’Irlanda dentro, proprio come il loro autore, anche mentre spaziano da New Orleans a Parigi in un vagare trasognato fra storie minuscole che diventano nel giro di poche pagine totalizzanti.
Un uomo incontra improvvisamente il suo primo amore, dopo che la vita li ha gettati su binari destinati a non convergere mai più. Una donna attraversa gli Stati Uniti per arrivare al capezzale dell’ex marito ormai in fin di vita. Un ragazzino perde il padre e trova un amico in un giovane vicino di casa. Un vedovo affitta la casa in cui trascorreva sempre le vacanze con la moglie e si perde nel respiro salmastro e agrodolce del Maine mentre tutto sembra indifferente.
Ford analizza ogni vicenda come davanti a una fotografia ritagliata. Si concentra proprio lì, sul vuoto, a partire dal contorno sezionato dalla forbice e riflette sul concetto stesso di assenza, sullo spazio bianco accecante attorno al quale il mondo ha continuato a colorarsi.
Accoppiamenti giudiziosi
Capita a tutti di vivere situazioni “da racconto”. Quando ho la sensazione di essere dentro una short story mi concentro soprattutto su un certo tipo di dettagli.
Non servono personaggi bizzarri né parole esagerate per vivere un racconto, spesso basta solo la giusta atmosfera per far sì che ogni cosa s’incastri in una parvenza di trama e catturi gli occhi verso la pagina.

Nel cinema questa sensazione l’ho provata guardando “Lost in Translation” di Sofia Coppola.
Complici un indimenticabile Bill Murray e una divina Scarlett Johansson, la vicenda narrata dal film si dimostra più un’esperienza in cui immergersi che qualcosa a cui assistere passivamente.
Sullo sfondo di un Giappone moderno e alieno, si incontrano per caso la giovane moglie di un fotografo e un attore in declino, che deve girare uno spot pubblicitario per una marca di whiskey.
Come in un racconto di Ford, anche sulla pellicola non accade tutto quello che ci si aspetterebbe in questi casi. Non si piange ma la malinconia ci prende ogni tanto mentre Tokyo scorre fuori dai finestrini delle automobili con le sue luci allucinate. Non si ride ma ci si commuove se si guardano i giusti dettagli.
La storia dà insomma l’impressione di essere molto più grande di quello che effettivamente ci viene mostrato. C’è sempre qualcosa, dietro o prima, c’è un sottinteso enorme che riesce a raccontarci con pennellate minime l’universo interiore dei due protagonisti: ciò che resta dentro chi legge o guarda è l’enormità dell’inespresso.
Come si possono descrivere sensazioni come il senso di smarrimento, l’horror vacui che si muta in amore, la dolcezza di un abbandono o la voce sottile della solitudine mentre tutto intorno fa rumore?
Forse solo col silenzio o con la discrezione di un gentiluomo prestato alla letteratura che – con un inchino appena accennato – ci parla di noi stessi come se ci conoscesse da sempre e poi si scusa per il disturbo.