Fra una Sardegna bonita che sculetta sui pattini e un Uruguay feroce e affamato di gloria si staglia una sorta di eroe dei due mondi: panciuto, ubriaco, rissoso, miracoloso. Parliamo del Gordo, calciatore di professione e scommettitore per passione, un cocktail irresistibile di sfrontatezza e fortuna, talento e ingordigia.
Il Gordo è fatto così: un po’ Bukowski e un po’ Maradona, sempre in bilico sul bordo scivoloso di un bicchiere ad altissima gradazione fra successo ed eccesso.
“Isla bonita”, opera prima del giornalista cagliaritano Nicola Muscas pubblicata da 66thand2nd, parla di sogni fuggenti e di grandiosi fallimenti e per farlo sceglie la metafora del calcio, con la sua complessità arrendevole e le sue mitologie popolari.
Il calcio – specie quello vissuto e combattuto in una Sardegna che allo stesso tempo osanna, insegue e teme la modernità – è solo la buccia esterna di una discorso sul grande sogno, che ognuno di noi da qualche parte custodisce.
È un romanzo di formazione? Un’avventura picaresca? Forse è entrambe le cose, forse seguendo le fila delle sue trame intrecciate arriva a comporre un’epica scanzonata fatta di pallone e crimine e donne affascinanti.
Non c’è però un’epica individualista nella parabola di Santiago Ramiro Rodríguez detto il Gordo, che si smarca agilmente anche dal ruolo di antieroe per diventare un personaggio tridimensionale e irresistibile. Esagera, certo, ma lo fa da professionista.
“Sai cosa mi ha rovinato, amigo? […] Cavalli lenti e donne veloci”
Nicola Muscas, Isla bonita
Muscas con il suo primo romanzo dà alle stampe un’opera fresca e inebriante come una birra ghiacciata sulla spiaggia. Senza pretese e senza paura di sporcarsi le mani imbastisce un racconto veloce e incantato, che fa del calcio una danza trascinante a cui è difficile non abbandonarsi.
I personaggi sono vividi, animati e veraci: dal giornalista trasognato al ferino direttore sportivo, dalla giornalista ambiziosa al medico senza radici, vogliono tutti qualcosa, ardentemente, vogliono vincere o andarsene o cambiare vita.
La “Isla bonita” di Muscas si rivela così come un passepartout incredibilmente maneggevole per aprire le porte di una Sardegna divisa fra voglia di modernità e amore per la tradizione, per parlare di successo e insuccesso e per abbracciarci con una storia eroica e sgangherata come solo certe partite riescono ad essere.
Accoppiamenti giudiziosi
Il calcio, i giocatori, il mercato che li avviluppa, le trasferte e il gioco in quanto tale richiamano tutti una certa concezione di dinamismo.
In questo l’opera di Muscas riporta alla mente un celebre dipinto di Umberto Boccioni, “Dinamismo di un footballer”.

Su questa tela cogliamo un giocatore nel pieno del movimento, che ci appare come una summa di velocità e spostamenti in un istante assoluto e puro, qualcosa che riassume in sé la potenza del gioco e l’epica fisica del giocatore.
I futuristi com’è noto erano innamorati del concetto di velocità, che esaltavano anche graficamente con quadri in grado di catturarla con una materialità visibile e tangibile, da vero protagonista.
Osservando l’immagine quasi indistinguibile del footballer si può però cogliere anche qualcos’altro: il suo corpo modifica l’ambiente circostante.
La sua lotta è qualcosa di totale e grandioso che influisce su tutto ciò che lo circonda: si piegano i panorami, si distorce la luce, si spezzano le linee.
Anche leggendo “Isla bonita” si chiede se calcio possa veramente avere questo effetto sul mondo. Può cambiare il destino di un’isola intera? Può cambiare la traiettoria di molte vite?