“Lamento di Portnoy” di Philip Roth

Ricordo che quando ero adolescente un vecchio amico di famiglia mi convinse ad avvicinarmi ai libri di Philip Roth, ovviamente con una certa cautela.

“È scabroso”.

Quella parola mi è rimasta impigliata nella memoria per molto tempo, e anche oggi leggendo Roth – soprattutto il Roth del “Lamento di Portnoy” – la vedo lampeggiare ogni tanto davanti agli occhi e la trovo quantomai adeguata.

Secondo il dizionario, si definisce scabroso ciò che “presenta aspetti particolarmente delicati, inerenti all’ambito della morale e del sesso, tali da poter turbare la sensibilità, la riservatezza e il pudore”, ma è scabroso anche qualcosa di “scabro, ruvido, non uniforme” e tutto ciò che è “difficile da risolvere, complicato, arduo”.

Roth mi sembra esattamente tutte queste cose: potrei dire anzi che il mio rapporto con Philip Roth gravita da sempre attorno a questa definizione.

Ho letto il Lamento di Portnoy a più riprese: un po’ da adolescente, poi ancora da adulto, e credo proprio che lo rileggerò da vecchio per capire se avrà ancora lo stesso effetto esplosivo.

Al momento della sua uscita in Italia per i tipi di Bompiani fece storcere il naso a Cassola, che provò (invano) a demolirlo dalle pagine del Corriere della Sera, e fu promosso con riserva da Natalia Ginzburg, che lo definì osceno in un’accezione comunque non particolarmente elogiativa.

Probabilmente l’Italia del 1970 non era pronta per Roth e forse non lo è nemmeno oggi.

Il 1970 è l’anno dei Mondiali in Messico e del Tuca Tuca e mentre oltremanica Jimi Hendrix si esibisce per l’ultima volta nella sua vita sull’Isola di Wight da noi si canta “Chi non lavora non fa l’amore”. La stagione del terrorismo intanto era già deflagrata con la Strage di Piazza Fontana.

Come ci ricordano gli sceneggiatori di “Boris,” l’Italia era ed è tuttora un Paese di musichette mentre fuori c’è la morte.

Il nostro Paese da un lato aveva cose ben più serie e cupe su cui riflettere, dall’altro lato invece con la sua posizione defilata era ancora troppo lontano dall’ambiente fisico e mentale in cui sui muovono Roth e i suoi personaggi per apprezzarli fino in fondo.

Eppure il punto di vista di Alexander Portnoy è esattamente il nostro, quello degli ultimi discendenti da una tradizione religiosa ingombrante ed eterna, quello dei figli perennemente assillati dall’ombra di mamma, quello di una sessualità castigata pronta ad esplodere.

Lontano dalla perfezione stilistica degli ultimi capolavori, come ad esempio l’indimenticabile Pastorale Americana del 1997, il Lamento di Portnoy ci presenta tuttavia un personaggio indimenticabile nella sua evoluzione (o involuzione, a seconda dei punti di vista): seduto sul lettino del suo psichiatra, Portnoy demolisce il pudore del lettore con uno sproloquio irrefrenabile che non dà al medico nemmeno il tempo di iniziare la terapia.

È un lamento, certo, ma è anche un grido liberatorio contro le imposizioni sociali e culturali dell’epoca e persino contro le elucubrazioni compassate del Doktor Freud e dei suoi seguaci: anche la psicanalisi e la scienza rimangono mute di fronte al fiume in piena di Roth e delle sue storie irriverenti e feroci.


Accoppiamenti giudiziosi

Alex Portnoy condivide molte caratteristiche con i personaggi resi iconici sul grande schermo da Woody Allen.

Certo i due autori interpretano in modo talvolta opposto l’ambiente che li circonda: Allen descrive un uomo insicuro, nevrotico e goffo, invece Portnoy è in un certo senso cattivo, maniaco, egoista.

Alla fine li amiamo entrambi, anche se in modi diversi, e ci riconosciamo almeno in una parte del loro carattere e delle loro ossessioni.

Entrambi soprattutto ironizzano sull’essere ebrei alla fine del mondo, sull’essere americani, sulla difficoltà di liberarsi dal giogo della famiglia, della religione, del senso di comunità.

L’esplorazione di Portnoy è certamente più fisica, avviene solo tramite il sesso: conosce il mondo violentando bistecche di fegato, masturbandosi, inseguendo le shikses e il loro mondo, viaggiando in Israele per fare sesso con una soldatessa.

Allen invece naufraga dentro se stesso e dentro New York, nell’autocommiserazione che si sublima in una feroce autoironia che passa sui difetti e sulle debolezze come l’olio sul legno, evidenziandone i nodi e facendoli esplodere di colore. È un’arte sottile e beffarda che si nutre di una vena inesauribile di umorismo ebraico.

Ciò che entrambi riescono a fare è costringerci a guardarci dentro irridendo tanto le nostre piccole manie quanto i tentativi di “curarle”.

Roth – come riporta Tullio Kezich sul Corriere della Sera – aveva un’opinione tutt’altro che lusinghiera del cineasta newyorkese:

Quello là è il peggiore di tutti, Woody Allen non esiste che grazie all’ ingenuità europea […] I suoi film sono vuoti, puerili. Non c’è il minimo embrione di pensiero né di invenzione. La sua visione dell’ambiente intellettuale è di una convenzionalità risibile. Lui stesso non è un intellettuale, ma un consumatore culturale […] Non sa niente della società che racconta […] un caricaturista”

E ancora, in una lettera allo scrittore John Updike:

Lo considero il livello più basso del kitsch ebraico

Forse furono complici di questo astio l’amicizia dello scrittore con Mia Farrow (ex moglie di Allen) o il suo matrimonio con l’attrice Claire Bloom, attrice che recitò in alcune pellicole alleniane.

I due artisti ebbero in ogni caso territorio comune e vite parallele, anzi talvolta sembrano l’uno il protagonista di un’opera dell’altro.

Ciò che appare evidente è la matrice comune alla base delle loro diverse espressioni artistiche: le nevrosi, l’ironia e la spietatezza nell’autocritica creano infatti in entrambi un delicato gioco di specchi fra vita privata e vita narrata, come se l’autobiografismo e non la psicanalisi fosse la vera panacea per tutti i mali.

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