“Satin Island” di Tom McCarthy

Non è sempre necessaria una grande cultura per poter apprezzare un romanzo complesso, ma sono sempre indispensabili curiosità e intelligenza per poterlo scrivere.

Con “Satin Island”, Tom McCarthy dimostra di essere un’autore vorace e poliedrico, portandoci in un mondo – quello dell’antropologia – che declinato sotto la sua insaziabile fame di spunti finisce per diventare una sorta di thriller esistenzialista senza vittime e senza crimini.

La trama è complessa solo se si scava, altrimenti è ben riassunta nella seconda di copertina: un antropologo lavora in una grande società di consulenza e si prepara da sempre a un certo “grande lavoro”, che forse coinciderà con quanto richiesto dall’ultimo appalto vinto dal suo datore di lavoro.

Non è chiaro nemmeno a lui in cosa consista il suo lavoro: raccoglie immagini e suggestioni, deduce connessioni e prova a risalire a contesti culturali/storici. A volte scrive relazioni. Principalmente sta nel suo ufficio sotterraneo a raccogliere e organizzare informazioni secondo un criterio personale, senza alcuna connessione apparente.

La vicenda prende le mosse dall’Aeroporto di Torino-Caselle, in cui l’antropologo si trova ad attendere un volo, ma viene dirottata presto verso altri ambienti mentali e fisici.

Che cosa c’entrano un tumore alla tiroide, un versamento di petrolio nel mare, alcune strane morti fra paracadutisti esperti?

Apparentemente nulla, eppure il protagonista unisce i puntini e si trova a dedurre qualcosa che attraversa la storia del mondo sino a penetrare anche nella sua vicenda personale.

Excursus di un’anima alla deriva che si scontra coi limiti della conoscenza umana o discesa negli inferi del lavoro nel nuovo millennio, il romanzo riesce senza fatica a far confluire le sue storie e le sue suggestioni in una versione originale e moderna di opera trasversale, a metà fra testo profetico, report, diario, memoir.

Leggendo però ci si scotta quasi con la materia purissima del romanzo, l’abilità nel raccontare, la bellezza di alcune prospettive, l’incastro perfetto di trama e riflessione che rivela – nascosta e abbacinante – un’opera ben più grande del libro minuto che la contiene.

Sono molte le derive che è possibile prendere leggendo le parole di McCarthy e non sono sicuro che tutte abbiano a che fare con il romanzo: ci si avvicina a Claude Lévi-Strauss, alla Sindone, al G8 di Genova, al culto dei cargo, a moltissime altre tematiche che si affacciano come quadri su una galleria solo apparentemente incoerente.

L’antropologia in questo caso funge solo da pretesto per toccare nel corso dei capitoli una moltitudine di immagini potenti e destabilizzanti nella loro invisibile contiguità.

Nella processione di temi che si affollano attorno alla testa del narratore assistiamo però a qualcosa di comune e trasversale, la vera tragedia dell’uomo moderno: dopo secoli di segreti e di saperi inaccessibili, la condanna beffarda cui siamo costantemente sottoposti è quella di disporre di ogni informazione immaginabile ma di non saper selezionare, nel marasma di dettagli irrilevanti, ciò che veramente ha importanza.

Allora appare chiarissimo come il vero Prometeo di oggi non sia destinato a donarci il fuoco, né a rivelarci un’informazione riservata o sottaciuta: il suo dono sarà al contrario la capacità di creare sistemi coerenti pescando nella materia informe che tutto comprende, realizzando ordine e individuando un legame dove prima c’erano solo caos e rumore di fondo.

McCarthy non delude, dà anzi il meglio di sé con un’opera titanica, difficile, altissima, spaventosa.

Il senso di disorientamento che si crea diventa talvolta così angosciante da togliere il fiato, eppure non c’è niente di soprannaturale: è l’orrore in cui siamo immersi quotidianamente, la mancanza di senso che ci affligge come una maledizione da quando nasciamo e cominciamo a comprendere le storture e i riflessi errati del mondo che ci circonda.


Accoppiamenti giudiziosi

Leggendo il romanzo ho avuto l’impressione di aver colto solo una minima parte del suo contenuto. Mi è sembrato cambiasse forma continuamente, come se mi trovassi davanti a un’illusione ottica.

Mi tornano in mente in proposito le sculture anamorfiche di Michael Murphy, inventore della Perceptual Art, che grazie a oggetti sospesi nello spazio in modo apparentemente casuale crea l’illusione di un’immagine bidimensionale.

Perceptual Shift from Perceptual Art on Vimeo.

Si tratta come per Satin Island di punti di vista: solo dall’angolazione corretta la galassia di sfere nere sospese nello spazio bianco assume un significato e diventa un’occhio aperto che osserva gli spettatori in una sinistra inversione di ruoli.

Anche McCarthy, come Murphy, sospende in aria chiavi di lettura che possono concorrere a formare un’immagine più grande è chiara, ma riuscire a distinguerne i contorni è un’operazione complessa che richiede di scavare dentro a più livelli di lettura.

Forse la intuisci – intuisci la bellezza e il dolore – ma niente è scontato, niente si incastra alla perfezione.

Alla fine ti rimane un solo interrogativo: era questa la prospettiva giusta? È da qui che l’autore voleva che osservassi la sua opera?

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