“La carne” di Cristò

Due storie corrono parallele: da un lato un vecchio, intrappolato in un mondo popolato da zombie tanto innocui quanto inquietanti, incapaci di morire e incapaci di vivere, dall’altro un medico sommerso da strani bigliettini scritti durante la notte dai suoi ignari pazienti.

Questa è la storia che ci racconta Cristò Chiapparino nel suo romanzo redivivo, La carne” (Neo Edizioni, 2020).

Si tratta di una lettura profondamente irregolare e autentica: i piani si confondono, la voce narrante del vecchio prende ora il sopravvento, ora si lascia trascinare dalle sue elucubrazioni e dai suoi ricordi.

Ci troviamo così in un mondo decadente e confuso in cui anche la morte ha perso il suo tradizionale primato di terrore: ora si teme l’inazione definitiva, si teme la fame costante che costringe gli zombie a fare la fila per avere un pezzo di carne di cui nutrirsi. Queste persone non sono morte – sembra anzi che non possano morire mai – eppure non sono nemmeno vive. Più o meno come tutti.

Cristò, con uno stile visionario e frammentato, ha profetizzato una versione inedita e molto personale di apocalisse: non arriverà con uno scoppio, ma con l’immobilità.

Non ci saranno più nuovi film, nuovi libri, nuova vita, nuovi lutti da elaborare, nuove invenzioni. Saremo inchiodati sull’appiattimento totale della curva del progresso, senza poter avanzare né retrocedere.

Allora cosa c’entrano il medico e i suoi bigliettini? Cosa c’entra il filosofo Averroè?

Il libro ha indubbiamente più livelli di lettura e apre più porte di quante ne chiuda con un punto fermo o con una spiegazione.

Ci sono molti binari da seguire per provare a capire questo marchingegno narrativo che con il suo incedere obliquo e bellissimo ci conduce dentro un incubo sempre più realistico.

È interessante notare infatti come convivano nelle due storie parallele alcuni spunti comuni in grado di tracimare nella nostra realtà di tutti i giorni: la rete come forma di intelligenza collettiva che si fa portatrice degli interessi di uno solo, il consumismo come fine della libertà di scelta, l’allungamento della vita come disumanizzazione.

A una lettura più approfondita possiamo però trovare anche molto altro. Scavando le parole emergono dalla superficie questioni più elevate ed evanescenti, talvolta solo abbozzate.

Vengono dal libro? Forse solo l’inizio di un nostro pensiero mai fatto consciamente, una speculazione sull’esistenza di universi alternativi, sul determinismo, sull’illusione della libera scelta.

Se ci concentriamo su ogni indizio e su ogni spiegazione che sembra affiorare per poi svanire, i collegamenti sembrano non aver fine .

Procedendo a tentoni in una storia che si dipana in un territorio oscuro fra horror e theory fiction, ci si perde dietro riflessioni che ormai poco c’entrano con la storia eppure afferiscono a qualcosa di superiore, universale, enorme.


Accoppiamenti giudiziosi

Si trovano sotto il livello della narrazione molti elementi su cui riflettere, tutti ugualmente pungenti e dolorosi – come a suo tempo furono profondi e acuti gli spunti dei film di George Romero.

La figura dello zombie come la conosciamo oggi viene da lì. Film, fumetti, serie TV hanno un debito importante con il Signor Romero e con la sua idea di morto vivente presa in prestito solo parzialmente dal folklore haitiano.

Gli zombie in questa accezione romerica uniscono l’essere cadaveri (in un certo senso solo parzialmente defunti) e l’essere cannibali.

È questa la chiave con cui Romero e i suoi emuli hanno rivelato, a partire dal cult Dawn of the Dead (in Italia noto icasticamente come Zombi), il progressivo rimbecillimento del genere umano, passato rapidamente dall’essere suddito di un sovrano all’essere schiavo dell’imperativo di acquistare, alimentarsi, consumare.

Questa soggezione porta i morti viventi di Romero, come forse quelli di Cristò, ad essere espressione di una volontà univoca, che non appartiene in fondo a nessuno di essi ma arriva dall’alto, a non aver più giudizio o critica e soprattutto a essere disposti ad ammazzare e consumare i propri simili pur di continuare ad alimentarsi.

L’idea di Romero ben si presta a descrivere anche la società odierna, in cui social network, web e televisione creano un piacevole rumore di fondo in cui per chiunque è dolcissimo naufragare per annegare le proprie opinioni, i propri valori e anche i propri interessi in quelli altrui, in un’inesorabile perdita della propria identità di essere senziente.

Allora siamo davvero tutti interpreti di una voce che non ci appartiene? Veramente ci muoviamo come un branco, anzi come un alveare? Siamo davvero bocche che all’unisono masticano la preda che una forza suprema ci ingiunge di cacciare e uccidere?

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