Quando fu portato alla fama nazionale da Roberto Calasso, Salvatore Niffoi insegnava alle scuole medie di Orani, in Barbagia, e pubblicava i suoi romanzi con editori locali come Il Maestrale o Solinas.
Poi Adelphi, le lodi di D’Orrico dalle pagine del Corriere, il Campiello, Feltrinelli, Giunti.
“La leggenda di Redenta Tiria” fu proprio il suo primo romanzo pubblicato da Adelphi, il primo ad avere avuto un’eco nazionale.
Siamo ad Abacrasta, un posto che può essere dovunque nel cuore roccioso e ispido del Centro Sardegna. Il narratore – un funzionario comunale con la segreta ambizione di diventare scrittore – ci racconta le storie dei suoi concittadini e di come, a un certo punto della loro esistenza, siano stati indotti al suicidio da una Voce misteriosa.
Ad Abacrasta, di vecchiaia non muore mai nessuno, l’agonia non ha fottuto mai un cristiano. Tutti gli uomini, arrivati ad una certa età, si slacciano la cinghia e se la legano al collo. Le donne usano la fune
Salvatore Niffoi, La leggenda di Redenta Tiria
Niffoi ci porta così in un groviglio di storie diverse, in cui la cadenza ipnotica dei suicidi di conoscenti, familiari e vicini si spezza solo con l’arrivo in città di una figura messianica chiamata Redenta Tiria.
La Sardegna che esce da questi micro-ritratti è una terra scabrosa e poetica, tanto violenta quanto delicata nei suoi equilibri precari, nella sua lontananza da tutto.
Gli abitanti di Abacrasta però non si “addrumano sicarette”, non sono macchiette di un dialetto inventato o forzato, non sono statuette del presepio di una Sardegna stereotipata. Sono vivi, sono veri ed è come se fossero sempre esistiti.
Anche nei caratteri più peculiari restano al limite maschere universali che costruiscono con l’ambiente che li circonda un complesso sistema di influenze e di inerzia.
È soprattutto questo la scrittura di Niffoi: atmosfera. È quella strana sensazione che si respira ancora oggi in Barbagia, in una Sardegna immersa nella mancanza assoluta di tempo, che la unisce idealmente ai secoli della Civita Nuragica e dei primi colonizzatori.
Non cambia quasi niente, le storie si ripetono e si generano in modo costante per creare un amalgama di bellezza e brutalità, delicatezza e fatica, saggezza e impulso.
Ogni tanto c’è luce, come quando arriva Redenta Tiria, ma è spesso così accecante che è difficile comprenderne la fonte.
Accoppiamenti giudiziosi
La Sardegna è un’isola bella e difficile ed è arduo raccontarla senza farsi affascinare dalla sua storia antichissima e dalla sua rasserenante asciuttezza.
Dal punto di vista culturale, l’isola offre un’enorme varietà di sedimentazioni che vanno dall’evidente eredità catalana di Alghero sino ai resti fenici dell’oristanese, passando per una serie complessa di dominatori e colonizzatori che hanno saputo plasmare solo in parte il carattere indomito di questa terra.
Ancorché geograficamente circoscritta alla Barbagia, la vicenda di Redenta Tiria è una bellissima riflessione sulla stratificazione culturale e religiosa che sta alla base della cultura sarda e delle sue usanze.

Ne troviamo un esempio suggestivo a San Salvatore di Sinis, nell’omonima chiesa che è stata edificata al centro dell’abitato su un antico santuario nuragico dedicato al culto delle acque.
Scendendo le scale, si accede a un tempio ipogeo che ci mostra in una sola occhiata l’armoniosa intersezione delle svariate culture che a San Salvatore si sono incontrate o scontrate: troviamo infatti un’antica fonte miracolosa poi convertita a battesimale cristiano e sulle pareti graffiti risalenti al IV secolo d.C. dedicati al culto di Venere e Marte, oltre a tracce della precedente civiltà nuragica e a un’indicazione in arabo ad Allah.

Ritornano i bisogni, le regole, i miti. Ritornano le storie che con diversi protagonisti ci portano in un’atmosfera di ieratica immobilità ai margini della storia. Ritorna l’assoluto bisogno di raccontare e di raccontarsi con una voce che sia unica come quella di Salvatore Niffoi.
