Appenzell, Svizzera. Siamo in un collegio laico, seguiamo i passi ordinati delle educande che si avvicinano all’agognata libertà giorno dopo giorno, arrancando verso la vita adulta.
Questa la trama per sommi capi del romanzo forse più noto di Fleur Jaeggy. Svizzera anche lei, come la protagonista senza nome. Anche lei dotata di una voce pulita, chiara, discreta. Eleganza allo stato puro.
“I beati anni del castigo” è però un romanzo feroce, a dispetto della trama scarna e dell’ambientazione idilliaca. Non si eccede mai, proprio come in collegio, eppure è impossibile non vedere – sotto i vestiti piegati, i piccoli rituali e le amicizie speciali – un soffuso e pervasivo erotismo.
La protagonista si innamora in poche pagine dell’algida Frédérique, della sua bellezza celata, del suo modo di fare distaccato, della sua grafia che prova in ogni modo a fare propria.
In un ambiente talmente statico da affinare i sensi oltre i limiti umani, le ragazze sono costrette a una coesistenza equivoca che ibrida sonno e veglia, odio e amore. Loro crescono, maturano, marciscono, affrontando i tumulti dell’adolescenza come da una tribuna d’onore, senza avere mai realmente la possibilità di buttarsi nel mondo vero e nelle sue storture.
Frédérique e la sua amica guardano tutto da lontano. Nemmeno si toccano – parlano di Baudelaire, di espressionisti tedeschi. È il castigo a creare ossessioni, e l’obbligo di essere perfette finisce per diventare una seconda natura a cui è impossibile negarsi.
Un giorno trovai nella mia casella un biglietto amoroso, era una bambina di dieci anni che mi pregava di diventare la mia protetta, voleva fare coppia con me. D’impulso risposi di no, malamente, e ancora oggi mi dispiace. […] Guardai troppo tardi la piccola, dopo averla offesa. Era veramente carina, attraente, avevo perduto una schiava senza gustarne qualche piacere.
Fleur Jaeggy, I beati anni del castigo
La ferocia della vita e del desiderio trapela solo attraverso qualche scena, qualche figura secondaria: il ricordo del rituale bacio alla mano della Madre Superiora di un altro collegio, le fossette della bella compagna di stanza tedesca, il lutto charmant di una bambina cresciuta in un castigato vestito nerissimo.

Mentre le educande si innamorano, senza mai dirselo, si desiderano, si prestano al gioco del possesso, la clausura forzata crea una tensione erotica in grado di coinvolgere anche i docenti, nel modo delicato e obliquo a cui l’autrice ci abitua con lo scorrere delle pagine.
Nel maturare sviluppano simmetrie che creano dinamiche invisibili dall’esterno. Come fili sottili e invincibili, come una ragnatela, la loro vita sociale fatta di silenzi, frasi morsicate e sguardi diventa una danza rituale di crudeltà e di possesso.
È un gioco, anche la vita che trepida e scalpita, è solo un ballo di fine anno in cui ogni bocciolo appuntato fra i capelli contiene già in sé l’immagine inequivocabile e terribile di un fiore appassito.
Accoppiamenti giudiziosi
È bello guardare a questo libro tenendo presente la lezione di Baltusz Klossowski de Rola (a.k.a. Balthus). Dal suo pennello sono uscite spesso scene che potrebbero essere viste come una base di partenza o come un prolungamento per “I beati anni del castigo”.
Balthus, Thérèse rêvant (1938) – New York, The Metropolitan Museum of Art – © Balthus
Si respira infatti la stessa aria equivoca e ambigua, lo stesso trasporto smorzato, la stessa geometria seducente e inquietante.
Balthus per le sue opere prediligeva figure acerbe, giovani donne colte in pose rilassate eppure stranamente rigide, proibite anche nell’austerità di una gonna a pieghe.
Affascinante, sottile, conturbante, forse malato, forse sbagliato, forse abissale.
Nell’Appenzell non si può fare a meno di passeggiare. Se si guardano le piccole finestre listate di bianco e gli operosi e incandescenti fiori ai davanzali, si avverte un ristagno tropicale, un lussureggiare tenuto alla briglia, si ha l’impressione che dentro succeda qualcosa di serenamente fosco e un poco malato. Un’Arcadia della malattia.
Fleur Jaeggy, I beati anni del castigo