C’è un’epica scomoda che ci pungola perché è troppo attuale, perché non divide il mondo in un rassicurante chiaroscuro fra buoni e cattivi, perché racconta qualcosa di cui siamo spettatori impotenti e colpevoli.
Siamo in Nigeria, all’alba del Novecento. Nulla tradisce lo scorrere delle epoche perché il villaggio di Umuofia è un luogo in cui il tempo procede ciclicamente fra le stagioni e non linearmente in una successione di eventi storici.
In questo modo, la storia che mastica Okonkwo è la stessa dei suoi antenati: si celebrano rituali in maschera e matrimoni, si raccolgono gli ignami, si rompe la noce di cola per accogliere gli ospiti. Il mondo degli dei, antico e inconoscibile, non è perfettamente disgiunto da quello degli uomini ed anzi prosegue in esso tramite animali e simulacri che concretizzano il dialogo dell’essere umano con la paura, la natura, la giustizia.
Ogni comportamento in questo modo prosegue secondo la tradizione che è al contempo ricchezza e limite: Okonkwo non è il selvaggio semplice che gli esploratori europei hanno raccontato nei loro resoconti di “civilizzazione”, ma è un eroe vicino alla complessità delle figure omeriche, interprete e difensore di una cultura che risale agli albori dei tempi.
Come essa, anche Okonkwo presenta già all’inizio della storia le crepe quasi invisibili che porteranno al crollo che già dalla prima pagina di pone come un esito inevitabile. Lo percorrono come una ragnatela la violenza e il bisogno di redenzione, la bramosia di successo e ricchezza, l’amore protettivo nei confronti dell’eredità degli antenati.
È straniante addentrarsi nel sistema di valori degli Ibo, eppure nel corso delle pagine si comincia a pensare come un Ibo, a temere e rispettare l’Oracolo, a capire che ignami e titoli sono qualcosa di molto più importante delle conchiglie (identificate con il denaro)
I titoli, ottenuti per merito davanti alla collettività e rappresentati dalle cavigliere di cui ogni nato-libero si fregia, sono ciò che rende un uomo degno di rispetto e lo solleva dallo status di agbala (letteralmente “donna”, usato nella cultura Ibo come dispregiativo se riferito a un uomo e traducibile come “femminuccia”).
La comunità che ci viene presentata da Achebe non è un habitat idilliaco e idealizzato come una nuova Arcadia, ma presenta una grande complessità proprio perché permeata di diseguaglianze e solidarietà, di brutalità e dolcezza. Okonkwo è l’emblema di questa dicotomia: se da un lato, per rinnegare il lascito di pigrizia e indolenza del padre, arriva a uccidere il suo Isacco senza che il Dio degli europei fermi il suo pugnale, dall’altro si strugge per la figlia malata e per lei arriva a sfidare gli dei.
Il crollo è personale e collettivo e arriva da lontano, con i missionari che cominciano a sovvertire i meccanismi alla base del clan forzando – ora dolcemente, ora con la violenza – gli Ibo dentro una cultura che non appartiene all’Africa.
Ma sono veramente il male? È veramente un abominio, come dicono loro, sbarazzarsi di tutti i gemelli appena nati? È veramente lecito uccidere il pitone reale?
Achebe, rivendicando la dignità e la profondità del suo popolo, racconta l’origine di una lacerazione insanabile e la titanica lotta di un mondo minuscolo e colorato contro un universo sconfinato che cerca di inglobarlo e divorarlo.
Fra gli ibo c’è un proverbio, un uomo che non sa dire dove la pioggia l’ha colpito, non sa neppure dove il suo corpo si è asciugato. Lo scrittore deve dire alla gente dove la pioggia ha colpito.
Chinua Achebe, The role of a writer in a New Nation in Nigeria Magazine, n. 81
L’Edizione
Esercita un fascino magico l’edizione con cui quest’opera è arrivata in Italia nel 1977, per i tipi di Jaca Book, raccolta insieme a “Ormai a disagio” e a “La freccia di Dio” nel volume intitolato “Dove batte la pioggia”.
Sempre grazie a Jaca Book, in collaborazione con l’Università di Bergamo, questo grande classico è stato riscoperto nel 1994 in occasione del conferimento a Chinua Achebe del Premio Nonino ed è stato infine riportato in libreria col titolo “Le cose crollano” da La nave di Teseo.
Accoppiamenti giudiziosi
Se un libro è fatto anche di profumi e di sapori, non possiamo evitare la curiosità di assaggiare un piatto della tradizione nigeriana.
Possiamo provare a preparare un buon fufu, naturalmente affidandoci ai famosi ignami (in inglese chiamati yam, nome con cui spesso vengono commercializzati) che ci hanno accompagnato come un leitmotiv per tutto il libro.
Tagliate gli ignami a tocchetti, avendo cura di sciacquarli in una ciotola d’acqua per evitare che anneriscano, poi fateli bollire per 10-15 minuti finché non saranno teneri.
A questo punto pestate i cubetti di igname in un mortaio avendo cura di ridurre i grumi a un composto elastico come l’impasto del pane.
Raccolto a forma di sfera, il fufu può essere servito come accompagnamento a zuppe o stufati di verdure e carne.