Una delle imprese più ardue a cui ogni scrittore si trova davanti, nella propria carriera, è senz’altro quella di trovare una propria voce: originale, autonoma, riconoscibile – qualcosa con cui fidelizzare i propri lettori, qualcosa che permetta di spiccare sulla massa spesso informe e uniforme della scena letteraria.
Ci è riuscito da subito Franco Stelzer – splendida voce trentina già nota ai frequentatori più assidui di Casa Einaudi – autore di altre tre opere centellinate nell’ultimo ventennio e dotate tutte della medesima energia quieta, dello stesso tono inconfondibile.
Con il suo atteso ritorno in libreria, finalista al Premio Bergamo, Stelzer ci regala ancora un po’ della sua lauta asciuttezza grazie a un sottile gioco di specchi fra diversi piani di lettura.
“Cosa diremo agli angeli” è un’opera di raro respiro, a prescindere dal formato agile cui ci ha abituati l’elegantissima collana “L’Arcipelago” dell’Einaudi, perché attraversa in una sola narrazione, frammentata in piccoli capitoli, diverse scene e diverse vite, in un costante andirivieni di finzioni abilmente incastonate una dentro l’altra.
Entriamo così nella prima finzione, quella della voce narrante: un addetto aeroportuale di cui impariamo a conoscere via via sempre più dettagli, tutti ugualmente marginali. Ciò che conta è la sua passione per le storie, per perdersi ad immaginare le vite dei passeggeri che gli passano davanti ogni giorno.
Le altre finzioni si snodano in un intreccio che confonde e affascina, rinchiudendosi l’una nell’altra come i petali di un fiore.
Diremo agli angeli che la natura non è fatta unicamente di vette e di abissi. Né tantomeno solo di pianure ridenti. Rivendicheremo, al loro cospetto, la densità dei rifiuti, delle materie di scarto, delle cose umili.
Franco Stelzer, Cosa diremo agli angeli
L’oggetto del racconto si sviluppa così attorno a un passeggero abituale, probabilmente un imprenditore che periodicamente si sposta fra la propria famiglia e il proprio lavoro, un pendolare del cielo che nel corso delle fugaci apparizioni al check-in diventa un po’ ossessione, un po’ via di fuga per gli osservatori della sua storia.
È solo grazie all’immaginazione che possiamo seguirlo fuori dall’aeroporto, elaborando grazie agli occhi del narratore una vicenda solo probabile, anzi dichiaratamente fasulla, forse verosimile, di sicuro completamente inventata.
Dentro le vite fittizie del narratore e del narrato troviamo così altre storie: quelle dei vecchi fumetti erotici di cui entrambi diventano lettori, quelle degli animali e delle curiosità a cui entrambi per vite diverse finiscono per appassionarsi, quella del marito che sorprende la moglie a letto con due sconosciuti.
I caratteri dei personaggi sono semplici, intuiti dai movimenti o piccoli dettagli osservati e poi confabulati sino a diventare tratti distintivi di una personalità.
È in questo meccanismo complesso che la voce di Stelzer prevale, regalandoci squarci chirurgicamente precisi, di poche parole perfette, per trascinarci al centro del grande mistero che è l’arte stessa del raccontare.
È proprio questo che fanno tutti i personaggi: immaginano e raccontano, talvolta solo a se stessi, storie in grado di dare profondità alle loro esistenze altrimenti irrilevanti. Ogni parto dell’immaginazione spalanca un abisso di possibilità e di divagazioni a cui solo altre storie possono porre rimedio.
In questo modo il libro fiorisce – oltre lo scheletro esile e il tono lieve propri di Stelzer e dei suoi altri bellissimi lavori – verso qualcosa di incredibilmente profondo e leggero al contempo.
Fra decolli e atterraggi, nel clima etereo delle molteplici narrazioni è l’immaginazione a farsi collante e concime, atto generatore oltre che tentativo di evasione.
Con la sua consueta discrezione, Stelzer guarda dentro la sua esistenza e dentro quelle dei suoi lettori per trovare un unico grande elemento in comune: la voglia di narrare e di narrarsi.
A questo espediente di narrazione a più livelli – già percorso fra gli altri da un gigante della letteratura americana come Philip Roth, col suo alter-ego Nathan Zuckerman, l’autore abbina un elegante cantus firmus che riprende il titolo dell’opera, in forma di domanda: cosa diremo agli angeli?
Gli angeli sono però semplici intermediari, giudici benevoli e onniscienti che racconteranno, a loro volta, ogni cosa a qualcuno di ancora più alto.
Momento di consolazione e riflessione esistenziale, o di ultima accettazione di sé e delle proprie debolezze, le domande si moltiplicano come si moltiplicano i bivi e le ipotesi da cui gemmano altrettante storie.
Mi chiedono che cosa trovi di bello nel mio lavoro. Beh, dico, il fatto di guardare.
Franco Stelzer, Cosa diremo agli angeli
“Watercolors” by Claudia Chang is licensed under CC BY-NC 4.0
Accoppiamenti giudiziosi
La scrittura di Stelzer procede trasparente per sovrapposizioni, come la pittura ad acquerello.
Questa tecnica, apparentemente semplice, ha regole che si imparano solo con l’esperienza: non si può cancellare o nascondere un colore, né controllare il comportamento dei pigmenti quando si lavora su una superficie bagnata.
Spesso non servono definizione ed eccesso di tono, per creare un piccolo capolavoro: basta accettare il comportamento dell’acqua, basta lavorare per impressioni e piccoli dettagli curati, basta avere pazienza che il foglio si asciughi per vedere comporsi una storia.