“Jesus’ Son” di Denis Johnson

Molto si è detto e molto si è letto su “Jesus’ Son”, il capolavoro di Denis Johnson.

Ne hanno parlato scrittori come John Updike o Salvatore Scibona, critici, lettori entusiasti. Molte voci, per un libro che nella nuova traduzione italiana a cura di Silvia Pareschi conta meno di 100 pagine.

Di cosa parliamo, però, quando parliamo di Jesus’ Son?

Parliamo innanzitutto di un mondo, quello allucinato, brutale e a tratti poetico di Denis Johnson. L’autore, lontano dal cercare coerenza e razionalità, procede per quadri, episodi staccati della vita di un protagonista senza nome, noto icasticamente come “Testadicazzo, perché ogni cosa che tocca si trasforma in merda.

Lo seguiamo in una vita senza inizio e senza fine, sospesa, come nel rimbalzo di un autostoppista fra i diversi guidatori, fra le compagnie sbagliate, le idee inconcludenti, i lavori malpagati e la droga.

La fortuna di queste storie forse risiede, fra l’altro, anche nello stile che fa proprio il minimalismo del maestro Carver portandolo a uno sviluppo inedito, squinternato e lisergico. La sua prosa spietata non fa concessioni ai protagonisti, alle loro esistenze corsare e alla violenza di cui sono ora oggetto ora strumento.

Il Savoy Hotel era un postaccio. La sua realtà svaniva man mano che si innalzava sopra First Avenue, sicché i piani superiori sgocciolavano via via nello spazio. Su per le scale si trascinavano dei mostri.

Denis Johnson, Matrimonio sporco

Seguiamo così il protagonista in molti posti dove nessuno vorrebbe mai trovarsi: hotel, bar malfamati, ospedali di notte. Non c’è luce, nelle parole di Johnson, non c’è redenzione ma solo capacità di abbandonarsi agli eventi e restare a galla, continuare a respirare, per quanto sbagliata e bastarda la vita possa sembrare.

La grande potenza narrativa del libro trasuda proprio da questo sostrato fertile e sporco, dai personaggi incontrati per caso e diventati, nel giro di poche righe, vere e proprie icone.

Come il paziente obeso di “Mani ferme al Seattle General”, come il finto polacco di Cleveland de “L’altro uomo”, come la giovane danzatrice del ventre di “Happy hour”: uomini e donne assuefatti alla distruzione, all’essere fagocitati dal mondo.

Si stava riposando fra un numero e l’altro a un tavolo del night club greco dove ballava, sfiorata dal cerchio di luce del palcoscenico. Era molto fragile. Sembrava che pensasse a qualcosa di lontano, mentre aspettava paziente che qualcuno la distruggesse.

Denis Johnson, Happy hour

Le vite dei personaggi narrati da Johnson non soffocano però chi legge, anzi lo accolgono: dietro ogni bruttezza e ogni stortura c’è sempre un senso di immenso che le pareti schifose dei bar o il sangue spazzato dal pavimento dell’ospedale non riescono a contenere.

Ecco lo sguardo di Johnson, un occhio trafitto – come nel racconto Emergenza – che trafigge e rompe i perimetri della narrativa per donare misteriosamente elevazione e profondità a qualunque situazione, anche alle più sporche e violente del suo universo fatto di tenebra.


L’Edizione

Dopo un primo ingresso nel mondo editoriale italiano con un’edizione abbastanza underground nei tascabili della “Stile libero”, il libro ritorna a splendere con una nuova veste grafica e una nuova traduzione nella collana ammiraglia di Casa Einaudi, i Supercoralli.

E torna in gran stile, come un ospite d’onore mancato da troppo tempo: conciso e spiazzante, dietro una copertina rigida insolitamente monocromatica, che raffigura una mano mentre stringe un fiammifero sul punto di accendersi (o spegnersi? Comunque qualcosa di provvisorio).


Accoppiamenti giudiziosi

È difficile trovare un corrispettivo per questo libro, per le sue atmosfere perfettamente evocate nella masticazione del narratore, nelle divagazioni, nella moltitudine di vicende giustapposte a formare un ambiente crudelmente concreto.

Forse la stessa forza primitiva di sprigiona dalle opere di Jean-Michel Basquiat.

Nel suo tratto sgargiante, esagerato e terribilmente terreno troviamo infatti l’amalgama culturale che, con le dovute proporzioni, alimenta e fa bruciare anche “Jesus’ Son”.

Nella pittura di Basquiat si rincorrono teschi e figure sgraziate, abnormi, rabbiose, in un’esplosione di delirante fragilità. Il tratto corposo, l’abbondanza di colori sfregiati e campi neri compone una trama di disagio e dolore, ma anche di orgoglio.

Come tutte le cose preziose, anche l’arte di sprofondare è cosa breve e delicata.

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