“Casa di foglie” di Mark Z. Danielewski

Ergodico è un termine rubato al lessico della fisica: basterebbe già questa constatazione per avvicinarsi involontariamente al mistero della sua complessità, alla sua stratificazione di significati.

Secondo alcuni deriverebbe dal sostantivo tedesco Ergode che individua un particolare sistema meccanico, secondo altri dal greco ergṓdēs, difficile.

E la difficoltà è senza dubbio uno dei tratti distintivi più utili per decifrare questa meravigliosa aberrazione postmoderna: una letteratura complicata tanto nella stesura quanto nella fruizione, che richiede operazioni non convenzionali per essere affrontata.

Ergodico è dunque Casa di foglie, opera prima e capolavoro dello scrittore americano Mark Z. Danielewski, pubblicata dapprima online, a episodi incompleti, e quindi integralmente in formato cartaceo, dopo un lavoro decennale di scrittura e revisione. Difficile, difficilissimo è anche trovarlo nella prima edizione italiana targata Mondadori.

Ergodica è stata quindi pure la caccia a questo tesoro letterario: nelle librerie specializzate in rarità, sulle bancarelle, sul web, fino alla ripubblicazione provvidenziale da parte di 66th & 2nd.

Ergodico, in questo senso quasi impossibile, è infine anche l’ambiente in cui si muovono i personaggi delle varie storie, compresenti in un enorme labirinto narrativo che li mette vicinissimi senza permettere loro di entrare veramente in contatto: il vecchio cieco Zampanò, l’Autore con la maiuscola, discendente morale di Omero e di Borges, e anche lo spiantato Johnny Truant ritrovatosi per caso nel pericolosissimo ruolo di redattore di un libro che sembra maledetto, e ancora le sue amanti vere o presunte, il suo amico Lude, sua madre rinchiusa in un ospedale psichiatrico, i personaggi del trattato (o romanzo?) che insiste a voler sistemare.

Difficile, impossibile addentrarsi senza una guida, senza una luce. Andiamo con ordine.

Casa di foglie è un libro che parla di un libro che parla di un film che parla di una casa che forse non esiste. Forse nemmeno il film esiste, né il libro. Forse non esiste nulla all’infuori del lettore che si trova davanti un oggetto misterioso in cui le scritte proseguono secondo logiche inumane, fra note a piè pagina e disegni, torcendosi, sovrapponendosi, collassando in forme minuscole o levitando in caratteri macroscopici, ora dritti ora a rovescio: è il labirinto del mostro, il mistero al cui interno si annida, ben nascosto dalle pieghe di una lingua mimetica e ingannevole, un nocciolo di orrore purissimo.

Il primo protagonista è Johnny Truant, un giovane segnato da estese cicatrici da ustione che lavora in un negozio di tatuaggi a Los Angeles. Per caso o per destino, cercando un nuovo appartamento, finisce nella casa di un vecchio cieco e solitario, Zampanò, morto di recente. La stanza in cui hanno rinvenuto il suo corpo, con strani segni e strani indizi mai chiariti, è disseminata di fogli scritti fittamente, forse tentativi abortiti di formare un romanzo, forse mastodontico lavoro di saggistica.

Johnny legge, traduce, si perde. Il fulcro del lavoro di Zampanò è un documentario, a suo avviso un vero cult ampiamente analizzato in ambito accademico: The Navidson Record. Questo film seguirebbe infatti le vicende del fotoreporter Navidson e della sua famiglia nel momento in cui scoprono incongruenze sempre più preoccupanti nella loro nuova casa: dimensioni che sembrano cambiare, nuove porte, un corridoio infinito, una strana presenza minacciosa e invisibile.

Il problema, per Johnny, è che questo filmato sembra non esistere al di fuori dagli scritti di Zampanò, vero affabulatore inattendibile e immaginifico. Zampanò si prodiga in liste infinite e mischia realtà e finzione sino a renderle indistinguibili, concentrandosi in un flusso inarrestabile di pensieri e citazioni, menzogne, devozioni che travolgono anche le note a piè pagina e i riferimenti bibliografici.

Mark Z. Danielewski

Allora ogni medium citato nella storia diventa un labirinto che cambia le dimensioni della narrazione e crea nuovi piani di lettura, portando il lettore sempre più a fondo, come nelle sale infinite della casa di Navidson, facendolo smarrire nel mistero antichissimo della letteratura e della creazione di storie, universi, vite.

In questo vorticare massimalista le voci sulla pagina si moltiplicano, in una parodia crudele del mondo accademico e della pretesa di onniscienza degli studiosi, degli addetti ai lavori: ogni aspetto pare eviscerato, vivisezionato alla luce asettica dello studio universitario. C’è un trattato per ogni fotogramma, un’analisi psicologica, un’intervista per ogni momento filmato da Navidson nell’assurda esplorazione dell’orrore annidato dentro la sua stessa casa. Ci sono scettici ed entusiasti, opinionisti ed esegeti, schiere di analisti che masticano il lavoro dell’autore e ne fanno brandelli senza pietà per digerirli, per aggiungere anche la loro voce e la loro razionalità a un fenomeno talmente eclatante da diventare leggenda e sfumare, infine, nella non-esistenza. Esiste Navidson, esiste Truant?

La voce beffarda di Zampanò ci accompagna intervallata agli aneddoti di Johnny Truant, alle trascrizioni di materiale audiovisivo e agli estratti di altre opere vere o presunte, per culminare nei ricordi della madre di Johnny, sciorinati dall’ospedale psichiatrico con una pioggia di lettere deliranti. Questo non basta, non esaurisce il frenetico crearsi che sembra affliggere la storia facendola esplodere in un inquietante rigoglio: ci sono le muse che leggono per Zampanò, gli amori mai dimenticati, le lingue che s’inseguono nella pagina in uno sfoggio inutile e bellissimo di erudizione fine a sé stessa, c’è la minaccia intangibile di un’ossessione che ruggisce dagli angoli della nostra percezione come un mostro in agguato, come le nostre paure più profonde.


Accoppiamenti giudiziosi

Che Casa di foglie sia un oggetto narrativo completamente anomalo, oltre che una titanica prova d’autore, lo testimonia anche l’incontrollato fiorire di ipotesi e letture che si sono susseguite sul web sin dal momento della sua prima pubblicazione.

Ci sono forum dedicati specificamente a questo libro e teorie che provano a identificare il narratore, a decriptare i codici nascosti nel libro leggendo solo le iniziali maiuscole o i (finti) refusi.

Ciò che emerge da questo brulicare è soprattutto l’onnipotenza dell’autore, che creando una parodia del libro didascalico per antonomasia, il trattato accademico, semina personaggi e suggestioni destinati a germogliare e proliferare ben oltre il suo controllo.

Casa di foglie è in questo senso soprattutto un lavoro sulla narrazione: è una critica mascherata da satira (o viceversa?), è un perdersi dentro architetture e opere concentriche che sembrano non portare a niente e invece conducono dritti al centro del labirinto, dove stanno il Minotauro e il cantore cieco: il potere divino dell’autore sull’opera, l’infinità delle sue possibilità creative e con essi la paura per questa voragine.

L’intero libro è anche un’opera in fuga dalla critica, come il ragazzino immortalato da Pere Borrell del Caso mentre esce da una cornice dorata.

Pere Borrell del Caso, Escapando de la crítica (1874)

Come in quest’opera, significativamente intitolata Escapando de la crítica, anche in Casa di Foglie i personaggi – l’uno intrappolato nell’opera dell’altro, come in un incubo che non finisce mai al risveglio – lottano per emergere dalla pagina e per scalfire l’opacità del mondo che li circonda, cercando di capire, di risolversi.

Per questo fanno cadere le barriere fra i vari livelli di lettura e mentono sistematicamente, come ogni scrittore dovrebbe fare, inventando storie e deviazioni che si rivelano presto un congegno maledetto – casa, libro, film, fotografia? – destinato a produrre digressioni e sottotrame che s’intersecano, si scontrano e amalgamano i tempi nell’eternità illogica della digestione critica o della riflessione ossessiva.

Casa di foglie sazia e sconcerta fino all’ultima pagina. Le sue prose ricchissime disorientano il pubblico come i trompe-l’œil dell’artista spagnolo seguendo la strada dell’irrazionale che sta dietro ogni processo creativo. Danielewski sceglie con cura sfondi e mezzi, recuperando l’atmosfera dei found footage di inizio millennio ma anche il fascino polveroso delle vecchie biblioteche, impastando riferimenti colti e immagini pop in un panorama piatto che ricalca perfettamente la profondità disarmante di una storia vera e tremenda.


Altri materiali

Per approfondire tutto ciò che c’è dietro Casa di Foglie servirebbe un manuale, anzi un trattato accademico. Danielewski non ne sarebbe contento.

Prediligiamo allora un approccio underground, necessariamente parziale, orgogliosamente spettrale:

  • Navidson, nel libro, ha vinto il Premio Pulitzer per una foto che segnerà tanto il suo successo quanto la sua condanna e lo infesterà per sempre. La vicenda dietro questo scatto, raffigurante una bambina che muore di fame vegliata da un avvoltoio, è la storia vera di Kevin Carter, che si è tolto la vita quattro mesi dopo la premiazione. Qui ogni riferimento.
  • Il forum sul sito dell’autore è ricco di spunti ma è labirintico come il libro, c’è rischio di perdersi. Qualche misteriosa e benevola Arianna ci ha dato però un filo con qualche link non più funzionante ma molte chiavi di ricerca. Lo si trova qui.

Lascia un commento