“La stella del mattino” di Karl Ove Knausgård

Un nuovo astro splende nel cielo della Norvegia: è Karl Ove Knausgård.

Reduce da un’epopea totalizzante – l’autobiografia in sei volumi intitolata Min kamp – e da un più contenuto ciclo sulle stagioni, l’autore norvegese ha scelto di cimentarsi in un nuovo lavoro, più romanzesco, più weird. Il primo volume di questa nuova fatica è “La stella del mattino”.

Si chiama così, come Lucifero, il viaggio al termine di una giornata mistica e inquietante che si apre e si chiude, rapida come palpebre, sulle vite dei suoi protagonisti, fra eventi irrilevanti e presagi abnormi, sospesa, inaccessibile.

È una narrazione sconfinata come i panorami del nord: la vicenda della comparsa di una nuova stella si lascia stringere dall’intreccio delle vite di tutti i protagonisti che si avviluppano verso un mistero sempre fuori fuoco.

La grandezza di Knausgård sta proprio nell’abilità con cui crea tensione e spaesamento attorno a storie minime, che sembrano ora assurde ora affilate come un coltello, apparentemente slegate fra di loro, lasciando intendere al lettore che ogni cosa converga verso un centro comune, una catastrofe imminente o un cambiamento epocale che l’essere umano non può e non deve comprendere fino in fondo.

In questo mondo sull’orlo del baratro la normalità si sfibra e lascia filtrare sospetti, stringe gli stomaci.

L’elemento comune ad ogni storia è la grandissima umanità di un autore che ha imparato a lavorare con l’animo umano come un chirurgo, prelevando ed esaminando con rispetto e profonda fascinazione ogni ghiandola, ogni organo, lasciandosi pervadere dalla bellezza incomprensibile di ogni anomalia che caratterizza la nostra fragilità. In questo modo sulla pagina riescono a susseguirsi trame umanissime, matrimoni falliti e ambizioni perdute, tiepide disperazioni e baratri senza fondo, mentre nel cielo l’incomprensibile maestà delle stelle incombe e rischiara ogni cosa, fra riferimenti biblici e catastrofi climatiche sempre più vicine, in una raffigurazione efficace e spietata della nostra stranissima age of anxiety.

I personaggi di Knausgård sono colti dall’istantanea dei capitoli a loro dedicati nella normale naturalezza della loro esistenza: una pastora protestante in crisi di fede, un marito stremato dalla malattia mentale della moglie, una musicista divorato dal senso di colpa per un errore commesso al lavoro e tenuto segreto, un giornalista alcolizzato in cerca di riscatto dopo una carriera naufragata, un’operatrice sanitaria insegue un paziente fuggito dalla clinica psichiatrica in cui era ricoverato.

Su questo sfondo ordinario, nel paesaggio evocativo di una Norvegia viva, in cui la natura e i tormenti umani si sovrappongono in quadri di straziante bellezza, affiorano con prepotenza elementi incongruenti che erodono sempre di più la barriera fra fisico e metafisico: i personaggi diventano così testimoni di un’invasione di granchi sulla terraferma, la strage efferata e immotivata di un gruppo metal, l’incomprensibile resurrezione di un paziente clinicamente morto.


Accoppiamenti giudiziosi

Romanzo corale e liminale, La stella del mattino interpreta in modo innovativo e coraggioso temi enormi come la morte, la solitudine, la vecchiaia, l’amore, il tempo.

L’approccio di Knausgård è sicuro e massimalista, la sua voce si snoda ora delicata ora sfrontata fra le storie che compongono il suo fascio di narrazioni contigue, senza paura di nascondere o di illuminare la coscienza di ogni personaggio con epifanie abbacinanti ed esplosioni di violenza.

Knausgård non dà risposte e non allestisce conclusioni o scioglimenti per un’opera anomala e potente, che trae la propria forza espressiva proprio dalla vaghezza e dalla sovrapposizione di riferimenti e ipotesi. Il suo campo d’indagine, in questo lavoro stratificato e aritmico, è proprio l’approccio dell’essere umano a tematiche così grandi da sfuggire al suo controllo e alla sua capacità di decodifica.

L’elemento comune – la stella del mattino che campeggia sulla copertina e nel cielo di ogni quadro narrativo – non può che richiamare alla mente l’opera di un’altra mente geniale, Lars Von Trier con il suo film Melancholia.

Grazie a una fotografia dolorosamente perfetta, Von Trier come Knausgård mette in scena la fine, la bellezza sublime e struggente di un nuovo pianeta che si fa sempre più vicino e incombente, un pianeta dal nome singolare, Melancholia, che sovrasta ogni cosa e si fa partecipe delle emozioni umane.

La natura si eleva da semplice fondale a soggetto di primo piano, si prende tutta la scena per costringere l’osservatore a guardare altrove: dentro sé stesso, o forse verso quei dettagli strani che costellano le nostre vite e sembrano gridarci, indicando furiosamente gli angoli bui della nostra percezione mutilata, che siamo circondati dall’incomprensibile, che siamo solo formiche nell’enormità di un meccanismo complesso come l’universo, che non possiamo sapere, che semplicemente siamo passeggeri per un viaggio già iniziato, verso l’ignoto.

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