Possiamo visualizzare la storia della letteratura come un albero: le radici, le foglie.
La detective story come la intendiamo oggi, in questa visione lunatica e botanica, ha una radice comune con un altro genere minore – uno di quei rami impazziti germogliati dal solido tronco della narrativa mainstream: la letteratura horror.
La radice, cosa abbastanza rara tanto in biologia quanto in letteratura, ha in questo caso un nome e un cognome: Edgar Allan Poe.
Dalla sua penna hanno infatti avuto origine tanto il giallo più tradizionale quanto i suoi risvolti psicologici o soprannaturali, in un miracolo di sintesi e atmosfera capace ancora oggi di fungere da solida base e ispirazione per un numero impressionante di opere derivate.
E se Poe – col suo modo d’intendere la letteratura, il suo universo oscuro, i suoi corvi – gode ancora di un enorme risonanza lo dobbiamo anche a chi ha saputo far propria la sua lezione: gli emuli, gli allievi, i profanatori che hanno osato ancora e nuovamente ibridare poliziesco e horror, giocando con le parole e con le paure dei propri lettori, coi loro incubi, con la forma impalpabile della loro follia.
L’horror e il mystery, queste piante gemelle malandate e minori, scaturite dalla stessa base, sono un’erba venefica potentissima capace di dare in autonomia i propri frutti: drupe tossiche, deformi, frutti adamitici maledetti. Alcuni di loro sono caduti così lontano dall’albero da finire addirittura in un altro continente, più precisamente in Giappone, in cerca di un nuovo terreno fertile. Parliamo naturalmente di Edogawa Ranpo.
Tarō Hirai, questo il suo vero nome, amò a tal punto le storie di Poe da adottarne il nome, naturalmente trasposto in una sua bizzarra versione nipponica.
Edgar Allan Poe, Edogawa Ranpo. Un nome botanico, scientifico, un nome sbagliato per un autore volutamente sbagliato, capace di riscrivere da solo un genere reinventando la lezione del maestro con la cura di un custode e l’ambizione di un eresiarca, espiantando germogli e spine di un’usanza occidentale in un paese lontanissimo, all’epoca abituato ad altri terrori.
Ranpo ha inventato trappole logiche, giuridiche e letterarie nei suoi romanzi e soprattutto nei suoi racconti, come ad esempio quelli raccolti per il mercato occidentale in “Japanese Tales of Mystery and Imagination”. Ha inventato anche perversioni e fragilità e vicende bizzarre, ben lontane dalle indagini di Sir Conan Doyle e dei suoi adepti, storie nuove.
Sopra ogni altra cosa, ha saputo affrontare la razionalità e le sue conseguenze in prose che alternano rigore chirurgico a sugestioni illogiche e folli, interpretando in chiave originale e innovativa le contraddizioni proprie dell’essere umano moderno e la complessità del mondo contemporaneo nelle sue pieghe più torbide e controverse.
Ero guro nansensu
Edogawa Ranpo ha dimostrato soprattutto nella sua narrativa breve una maestria sconfinata nella produzione di misteri. Storie arabesche e grottesche, come Poe, ma anche qualcosa di diverso.
Il Giappone, proprio grazie ad autori come Ranpo, ha scoperto nel primo Novecento una sensibilità inedita alla galassia weird, su cui ha scelto di affacciarsi nell’esplosione di riviste non dissimili dalle pulp americane, con espressioni underground e spontanee di un genere composito e d’ispirazione occidentale, come le parole che ne compongono il nome, ma fondamentalmente autoctono.
Ero guro nansensu è infatti un termine wasei-eigo, una fusione tutta nipponica di parole inglesi: erotic, grotesque, nonsense.
Più che un sostantivo è un manifesto, una dichiarazione di guerra.
Forse l’amore per il rigore logico connaturato ad alcuni lavori di Ranpo lo ha portato ad esplorare con una nuova consapevolezza i limiti della razionalità umana, trovando proprio nei suoi risvolti più sfumati ed enigmatici un territorio di sperimentazione perfetto. Forse, come il protagonista del racconto La camera rossa, Ranpo ha capito che il lettore giapponese aveva bisogno di qualcosa di assurdo per scavalcare la noia della razionalità, per sopravvivere ai meccanismi di rigore, ordine e produttività della società a lui contemporanea.
Così Ranpo, staccandosi dalle storie dal sapore più tipicamente poliziesco, inventa deviazioni sconcertanti capaci ancora oggi, a distanza di quasi un secolo dalla loro prima pubblicazione, di sconvolgere e ipnotizzare i lettori di tutto il mondo: ne Il bruco un eroe di guerra atrocemente mutilato sprofonda in un rapporto morboso con la giovane moglie, ne La sedia umana un uomo concepisce un assurdo ed efficacissimo travestimento da poltrona per entrare in silenzio nelle vite degli altri.
Accoppiamenti giudiziosi
Se questo nuovo approccio alla letteratura è una perla generata dalle impurità infiltrate dall’Occidente nella conchiglia chiusa del Giappone, similmente sono una reazione a un turbamento diffuso ed epocale le iconiche stampe macabre di Tsukioka Yoshitoshi: le muzan-e.
In questi lavori, veri predecessori dell’ero guro nansensu, l’incisore ha infatti immortalato l’incertezza di un periodo storico caratterizzato da instabilità politica e cambiamenti sociali come il passaggio fra l’epoca Edo e quella Meiji.
La sua visione rispecchia in questo modo tanto un’esperienza diretta di disagio profondo, vissuta in occasione della morte del padre, quanto la crisi delle tradizioni e del sistema feudale giapponese, che contemporaneamente sperimentava contatti e scambi sempre più intensi con l’Occidente e vedeva snaturarsi equilibri secolari.
Impurità, violenza, eversione sono le chiavi per interpretare questo fenomeno, talmente profondo da valicare i margini delle stampe per dilagare nella letteratura, nel cinema, nei manga.
Perché il sangue? Perché l’erotismo?
Le scene raffigurate da Yoshitoshi, come alcuni dei racconti di Edogawa Ranpo, scavalcano con questi espedienti di facile impatto il confine sottile fra la normalità e l’assurdo, inquinando con profili distorti e seducenti la pulizia del ragionamento logico e le sue implicazioni scientifiche, industriali, produttive.
Vogliono provocare, sconcertare, distruggere.
Evasione o invasione, l’estremo buttato su carta e il conturbante celato negli interstizi di una vita normale non possono lasciare indifferenti, e proprio per questo diventano provocazioni talmente forti da lasciare negli spettatori una cicatrice destinata a cambiarli: una ferita orrenda nella superficie perfetta di un Giappone idealizzato, una pugnalata nelle certezze solidissime di un Occidente annoiato e soddisfatto, addormentato, indifeso come una vittima pronta per il prossimo giallo.