Per un appassionato di short story leggere Donald Barthleme è come guardare il sole senza lenti. Bisogna schermarsi, stare attenti, bisogna avvicinarsi alla sua luce con la cautela che si deve a una figura astrale e immane.
Leggere le storie di Barthelme è insomma come iscriversi a un master: raggiunge livelli di sperimentalismo e originalità che richiedono un approccio da studioso, perché nelle sue parole si cela qualcosa di sfuggente e potentissimo che potremmo chiamare vera letteratura.
In questa raccolta Barthelme si diverte, come sempre, giocando con parole e punti di vista per assemblare un personalissimo excursus fra stili e tematiche, che non manca mai di condire ogni situazione con una buona spolverata di ironia e con una gustosissima guarnizione di puro assurdo. Già dalla prima storia, La rivolta degli indiani, pare evidente come l’approccio prescelto sia quello di disorientare il lettore con vicende camaleontiche: la narrazione di una fantomatica insurrezione Comanche si tramuta in una riflessione corrosiva sui rapporti di potere fra uomini e donne.

Così pure ne Il pallone, capolavoro universalmente riconosciuto del postmodernismo, l’enigmatica comparsa di un enorme pallone nel cielo di New York diventa simbolo di una solitudine strettamente personale che cresce e si gonfia sino a divenire un disagio (o una meraviglia?) per la collettività intera.
Barthleme è così: non vuole piacere a tutti, o lo si ama o lo si odia.
Lo amavano sicuramente Carver, Wallace, Pynchon e sicuramente lo amo anch’io.
Le ragioni per idolatrare il suo modo di fare letteratura, d’altronde, non mancano: il menefreghismo con cui liquida ogni realismo, la continua ricerca di un modo personale per sviluppare l’antichissima arte del racconto breve, la maestria senza eguali con cui assembla elementi dissonanti e icone pop nella miscela altamente esplosiva di una letteratura grottesca e surreale, sempre all’avanguardia.

Accoppiamenti giudiziosi
Lo stile irriverente, colorato e assurdo di Barthleme richiama alla mente l’estetica di un altro grande provocatore, il fotografo David LaChapelle.
Cresciuto nel grembo della pop art americana, LaChapelle ha saputo delineare con gli anni uno stile immediatamente riconoscibile, fatto di colori saturi e situazioni paradossali. La sua fotografia, pesantemente rimaneggiata, non teme mai di osare e si prodiga in esibizioni di sicuro impatto grazie ad accostamenti audaci che fanno uso di celebrità, animali, riferimenti sacri, oggetti scenici dal sapore surreale.
Cifra comune ai due artisti è sicuramente una certa propensione al caos, guardato sempre con un misto di fascinazione e venerazione e rappresentato ora come incastro inestricabile di corpi e oggetti, ora come codice attraverso il quale spiazzare l’osservatore per stimolare un nuovo modo di guardare la realtà.
Simboli, provocazioni, esperimenti?

Le opere di LaChapelle non sono estranee al mondo della moda e della pubblicità, anzi lo corteggiano come Barthelme corteggia i generi più diversi nella sua raccolta squisitamente postmoderna, passando dalla raffigurazione dissacrante di un Bob Kennedy vestito come Zorro all’esame abilitativo per scrittori, attraverso la ricerca di soluzioni stilisticamente ardite con la frammentazione o la ripetizione o altre soluzioni originali per meravigliare il lettore.
È proprio meraviglia quella che si prova davanti ad opere così colorate e vorticose: inutile ostinarsi a cercare sempre un senso, a scavare, perché l’archeologia letteraria e artistica uccide il desiderio, anzi lo tortura.
Meglio lasciarsi invadere dall’eccesso, dall’ironia, dalla magnifica iconoclastia di Barthelme e LaChapelle, che sistematicamente assemblano, profanano e reinventano la nostra cultura e il nostro modo d’intendere la vita.
Atti innaturali, pratiche innominabili
Donald Barthelme – Minimum Fax, 2005
Tutte le immagini sono incorporate dal sito ufficiale di David LaChapelle, cui si rimanda. Per tutte: ©David LaChapelle