“L’origine delle specie” di Kim Bo-Young

Alcuni robot riscoprono la vita biologica, alla ricerca delle proprie origini. Un principe ereditario va incontro a un’evoluzione meravigliosa e disumana. Un programmatore cerca di espellere da un gioco online l’ultimo giocatore rimasto, senza capire cosa sia umano e cosa artificiale. Un’umana da compagnia sfugge al suo padrone drago, in cerca di risposte.

Sono solo alcuni degli spunti che fioriscono nelle storie brevi di Kim Bo-Young, maestra della letteratura weird coreana portata in Italia da ADD Editore per la sua preziosa collana Asia.

Il principale argomento d’indagine della raccolta “L’origine delle specie” è proprio la disumanità. Tale concetto assume nelle diverse narrazioni forme e gradazioni differenti: l’autrice gioca continuamente con assurdi cambi di prospettiva per costringere il lettore a interrogarsi sul senso della propria umanità, mettendo in discussione usanze e assunti che poniamo abitualmente a base del nostro modo di essere umani.

Ma cosa significa, in fondo, essere umani?

Forse significa avere un determinato aspetto, due occhi, due gambe, due braccia, significa nascere, riprodursi, morire? O ancora: significa avere il pollice opponibile e capacità di astrazione, ritenersi l’unica specie pensante sul pianeta Terra, essere capace di determinare il futuro di ciò che ci circonda intervenendo sull’ambiente e sugli altri animali considerati “inferiori”?

Néle Azevedo, Monumento Mínimo (Berlin, 2009) – © Rosa Merk – WWF

Kim Bo-Young non dà risposte, si limita ad agitare le acque per creare una perturbazione nel nostro granitico sistema di valori lasciando affiorare dubbi e angosce esistenziali nel panorama vivido e ramificato della fantascienza più eclettica.

Per definire l’umanità l’autrice sceglie non a caso una strada impervia e obliqua: si concentra su ciò che fuor di dubbio non è umano.

Non c’è freno alla sua fantasia, che si nutre di scienza e di sogno mentre inventa trappole logiche e disturbanti inversioni di ruoli per stimolare riflessioni di ben più ampio respiro.

L’umanità viene decodificata tramite un processo di marginalizzazione: il focus delle storie di Kim Bo-Young si sposta infatti dal genere umano a qualcosa di collaterale e soverchiante: robot, draghi, ibridi, NPC da videogame.

In questo senso, in negativo emerge con prepotenza dalla sua penna visionaria un ritratto essenziale e perfetto di ciò che è – o dovrebbe essere – umano di per sé: le parti molli e cedevoli delle nostre strutture sociali, i limiti fisici di nascita e morte, la fragilità e la bellezza selvatica di tutto ciò che è biologico e terrestre e dunque caduco.


Accoppiamenti giudiziosi

L’artista brasiliana Néle Azevedo ebbe a dire: Il problema della scomparsa smuove la gente e per la nostra cultura è fondamentale capire che siamo mortali”.

Néle Azevedo, Monumento Mínimo (Birmingham, 2014)

E proprio il tema della mortalità ha un ruolo centrale nell’opera di Azevedo, ben incarnato dai suoi famosi Melting Men, omini di ghiaccio alti 20 centimetri, che sono stati protagonisti nel corso degli anni di performance che li hanno portati in tutto il mondo.

Azevedo, infatti, con il suo progetto Monumento Mínimo ha riempito più di una città con le sue figurine congelate, riprese in diverse pose mentre stanno semplicemente sedute ad aspettare di sciogliersi, riflettendo forse sulla caducità delle cose, forse semplicemente godendosi la sensazione liberatoria che si prova mentre si svanisce.

Come i racconti di Kim Bo-Young, anche questi quasi-umani di ghiaccio sono cose piccole ma buone – come direbbe Carver – capaci di contenere molto più significato di quanto i loro corpi minuscoli sembrano in grado di inglobare: da un lato esplorano il tema della trasformazione, intesa sia come evoluzione sia come dissoluzione, cui vanno incontro tutti gli organismi viventi, dall’altro approfondiscono le preoccupazioni dell’uomo moderno che si trova per la prima volta nella storia a un passo dalla catastrofe climatica.

I Melting Men sono “figure che guardano il mondo, attraversandolo”, nelle parole della loro ideatrice. Sono il cristallizzarsi di una memoria collettiva e di un senso di appartenenza e umanità che supera la caducità dei materiali e dei tessuti e si propaga – come una specie vivente, come un’idea – insensibile al tempo e al suo incessante avanzare.

Fra distopia e sogno, le opere di Kim e Azevedo sembrano quasi parlarsi mentre esplorano il concetto di umanità e lo mettono di fronte alla brutale limitatezza del corpo umano e della vita, esponendolo a interrogativi enormi e fondamentali, impossibili da ignorare.

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