È stata una splendida estate. Aveva ragione. Era stata proprio una bella estate. Ma era stata anche un’estate crudele. Guardava per terra con la testa storta di lato, lasciata giù molle sul collo come un palloncino sgonfio. Trasudava compassione. E a buon diritto, perché io avevo scelto proprio quel giorno per indossare la maglietta col delfino. La maglietta col delfino me l’aveva regalata mamma due/tre anni prima, quando ne avevo undici. A undici anni non ero solita esprimere apprezzamento o entusiasmo per le cose. Mia madre doveva tirare a indovinare. Una volta mi aveva portata all’acquario insieme al suo nuovo fidanzato che mi voleva presentare. Ricordo quanto mi dispiacque vederla agitarsi come un giullare per rendere la situazione piacevole, per far apparire il suo compagno una scelta oculata, per impacchettare a modino il nostro primo e ultimo ricordo assieme, circondati da pesci bizzarri. Non me l’ero proprio sentita di rimanere impermeabile alla sua sudata messinscena. Alla prima occasione avevo ruttato fuori che i delfini erano belli, mi piacevano i delfini. Mia madre aveva registrato la notizia con gioia spropositata, le si erano persino dilatate le pupille, rendendola simile lei stessa a un delfino. O almeno questo è il ricordo che ne conservo. Pochi giorni dopo eccola presentarsi a casa con una magliettina in cotone con un delfino stampato sopra, frontale, bordato di paillettes azzurro marina e che sfoggiava un bel sorrisone amichevole. Fu stabilito che quella sarebbe diventata la mia maglietta del cuore. Ma non era certo una maglietta che valorizzava i miei piccoli tondi seni adolescenziali, o che diceva guarda i miei piccoli tondi seni adolescenziali, pronti per essere impastati dalle tue ragnesche mani adolescenziali. E questo andava benissimo quando avevo undici anni. Anche quando ne avevo dodici e tredici. Sarebbe pure andato bene per quando ne avevo quattordici, ma la peer pressure è una brutta bestia. Jonathan era il figlio della seconda moglie del cugino di mio padre. Quindi in un certo metafisico senso eravamo cugini pure noi. Ci eravamo visti forse una volta da piccoli, al lago, nella casa che papà aveva costruito come casa vacanze per noi, cioè lui mamma e me, e chiunque altro fosse voluto venire in visita. Era un ospite generoso papà. Purtroppo era morto e mi aveva lasciata con mamma e i suoi fidanzati dozzinali. La casa sul lago invece era rimasta e io e la mamma ci andavamo ancora tutte le estati. L’estate dei miei quattordici anni qualcosa era cambiato. Fino ad allora le vacanze estive trascorse nella casa al lago avevano significato per me: dormire fino a tardi, trovare pronti in cucina la scatola dei miei cereali preferiti, quelli con le letterine colorate, il cartone del latte, una ciotola e un messaggio di mamma che diceva cose come sono in spiaggia con Olly ci vediamo a pranzo o ciao stellina o a volte solo ciao (e in questo e altri casi dove il messaggio era particolarmente breve me lo scriveva pure con i cereali), passare il pomeriggio sul molo con le mie amiche randagie, a parlare di scuola, di pesci o di cacca, nuotare, correre, mangiare gelati e così via fino all’ora di andare a dormire, piena di bruciature e sbucciature. Beh quell’estate, invece, fin dall’inizio, nulla era come doveva essere. Prendiamo la mia amica Cocca, per esempio. Lei era la più randagia di tutte, così randagia che era impossibile fissare un appuntamento con lei, che si materializzava e basta, dovunque tu fossi, come un cane smagrito attirato dai resti del mercato del pesce. La mia amica Cocca, quell’estate, con mio supremo orrore, si era fidanzata. E non con un tipo qualunque. Si era fidanzata con il figlio del proprietario della farmacia del lungolago, dove andavano le mamme a rimediare cerotti e alcol medicale per quegli idioti dei loro bambini che si erano procurati qualche ferita sanguinolenta nella frenesia dei giochi. Il figlio del farmacista, che io chiamavo il Merda, era un piccolo stronzo con i capelli biondi sbiaditi, perennemente bruciato cotto dal sole, con delle fastidiose lentiggini sputate a caso su quella sua faccia arcigna da pettirosso, più tipo diarrea a spruzzo che galassie, che gli conferivano tutto fuorché fascino e non erano per niente sbarazzine. Quando avevo cinque anni mi aveva rincorsa per tutta la spiaggia brandendo una lametta e minacciando di affettarmi come un prosciutto se non mi fossi tirata giù il costumino e gli avessi fatto vedere la patatina. Già allora trovai il gesto al tempo stesso prematuro e immaturo da parte del Merda, che aveva sei anni, ma mi vidi costretta ad eseguire. Non l’ho mai perdonato, e Cocca lo sapeva bene. Scegliendo dunque proprio il figlio del farmacista come primo amore, Cocca aveva contravvenuto a tutta una serie di leggi non scritte che vigono all’interno di una sisterhood che si rispetti. Non passava più tanto tempo con me. A volte mi raggiungeva al molo, dove io la aspettavo fissando l’acqua e infilandomi sassolini tra le dita dei piedi e sotto le unghie. Lei mi teneva compagnia per una manciata di minuti, ma quando provavo a proporle, come era nostro uso, di farci un tuffo e di fare a gara di annegamento mi diceva che no, non poteva perché si era appena lavata i capelli e non voleva doverseli lavare di nuovo. I capelli lavati non erano mai stati un tema per noi. Non era neanche un’azione su cui nessuna delle due avesse alcun tipo di arbitrio, il lavaggio dei capelli. Era piuttosto una calamità cui eravamo sottoposte a intervalli regolari, costrette dalle nostre mamme. Iniziai a notare che questo nuovo strano comportamento aveva infettato anche altre mie amiche di serie B e C, con cui ero solita spendere una buona fetta delle mie giornate lacustri. La mattina verso le undici si ammassavano ora intorno al campo di beach volley a fare il tifo o a partecipare ai tornei in cui giocavano i ragazzi del paese nostri coetanei, i cui corpi, come i nostri, erano cambiati nel giro di un anno. Ora era molto più facile stabilire se uno fosse grasso o magro, perché i magri avevano stomaci piatti e definiti e braccia e gambe nodose e irrorate di vene. Prima erano tutti più o meno tondi e informi come sacchetti di lenticchie. Passavo di fianco alla spiaggia sui pattini per raggiungere mamma e sulla via contavo di raccattare qualcuna delle mie amiche e di farci due tiri di sigaretta insieme nel vicolo dietro al supermercato, quando riuscivo a rubarne qualcuna dal cassetto del comò. Ma non mi capitava più di trovarle sole a ciondolare sulla promenade, con le mani abbandonate nelle tasche e i capelli sulla nuca arricciati dal sudore, che si godevano la noia fino al mio eventuale arrivo. Le vedevo piccole piccole da lontano, come mosche se la svolazzavano intorno agli odori dei maschi, alla loro pelle nuda e sudata, ombreggiata di peli vaporosi. Ed erano tutti rosa dalle scottature, che si spostavano, sparpagliavano e aggregavano come particelle di una micosi sulla spiaggia luccicante. Una sera a cena mamma mi aveva chiesto perché non ero andata al cinema con Cocca e il suo fidanzato e gli altri. Non avevo idea che Cocca fosse andata al cinema con il Merda, né che ci fossero degli altri con loro. Allestii l’espressione più indifferente che potei, col risultato di sembrare accigliata; sbuffai con sdegno e mi ritirai ammutolita in camera mia. Sognai Cocca che da bruco diventava una farfalla bellissima e lasciava i resti della sua pelle viscida e croccante su di me, che nel sogno ero un sasso. La mattina mi svegliai in preda ad una nuova ruggente determinazione. Indossai un costume di quando ero piccola, che mamma aveva buttato via all’inizio dell’estate mentre sistemava l’armadio, questo non ti entra più, ma io lo avevo recuperato per affezione. Il pezzo sopra mi copriva il giusto, ma quando alzavo le braccia anche di poco si tirava su quel tanto che bastava per lasciar spuntare il grasso delle tette, segnandole con la cucitura e creando un succulento gioco di ombre e rotondità che sapevo essere irresistibile. Al lago ci conoscevamo tutti e a nessuno importava se la gente se ne andava in giro in costume, purché facesse parte della comunità consolidata. Per i turisti c’erano ovunque cartelli che vietavano di presentarsi nei bar e nei negozi senza vestiti addosso. Con il mio costumino dell’infanzia avevo raggiunto il campo di beach volley, ma una fastidiosa fitta alla bocca dello stomaco mi aveva fatta desistere dall’intenzione originaria di mescolarmi con lo sciame di adolescenti, così mi feci un po’ da parte, andandomi a sedere sul bordo di una sdraio all’ombra, dove comunque la visuale era eccellente. Jonathan mi aveva salutata con un cenno del capo, proprio come farebbe un cugino. Jonathan era uno di quelli sul cui corpo la carne si era distribuita bene con la crescita: arti nodosi, vene, tutto a posto. Aveva un busto lungo e dritto, lo stomaco tirato, i capezzoli piccoli, marroncini e piatti come degli sticker. Peli e capelli erano biondi, biondo fluo. Avevo presto preso a frequentare tutte le situazioni sociali in cui sapevo, da indagini accurate, che ci sarebbe stato lui. Un mercoledì sera si andava tutti in pizzeria in centro. Il piano poi era di spostarsi al lunapark, dove c’era il baracchino di Luca e Giovanni che ci vendeva le birre senza chiederci l’età. Il tavolo che ci avevano riservato in pizzeria era il migliore di tutti, il più romantico, quello che stava sulla terrazza che affacciava direttamente sulla spiaggia. Jonathan si era seduto per primo e quando uno degli altri aveva fatto per mettersi sulla sedia accanto alla sua lui ci aveva posato la mano sopra, facendogli poi cenno di mettersi sulla sedia di fronte. Subito dopo aveva guardato me, cui quel posto era ineluttabilmente destinato, e io avvampai che quasi mi venne da tossire e sentii una strana vibrante sensazione al basso ventre. Cocca e il Merda sedevano dal lato opposto del tavolo e lui ogni tanto le dava un bacio sul collo o le sistemava un ciuffo di capelli che le sventolava sulla fronte per il vento. Mi davano il voltastomaco. Io e Jonathan invece non ci eravamo ancora rivolti parola, ma sapevo che era un bene, perché significava che si stava materializzando qualcosa di scomodo e promettente tra di noi. Poi, a cena finita, mentre camminavamo verso il lunapark, mi aveva messo un braccio davanti alla pancia per farmi rallentare e rimanere indietro rispetto agli altri e guardandosi attentamente le scarpe mi aveva chiesto se secondo me eravamo cugini, perché lui non lo aveva mica capito. Io dissi immediatamente di NO, un no che mi uscì un po’ troppo carico e che tradiva il mio interesse nel mantenerci geneticamente slegati. Ma lui sembrò esserne sollevato. Mi aveva pagato la prima birra da Luca e Giovanni, ma visto che non aveva sortito un grande effetto su di me, ne aveva comprata anche una seconda e poi una terza. C’era stata una breve pausa, in cui i ragazzi e Cocca si erano fatti un giro di giostre. Io no, avevo aspettato sulla terraferma, finendo di scolarmi la mia ormai quarta birra e cercando di calmare gli ormoni fuori controllo. Avevo paura che lui notasse la mia agitazione e pensasse di me che ero solo una bamboccia. Cosa che, a posteriori, sarebbe stata assolutamente okay, essere una bamboccia, perché di fatto lo ero. Ma a quattordici anni non ero ancora così illuminata da riconoscere e fare mio il valore del taking things slowly e dare tempo al tempo. Quando l’ultimo giro delle montagne russe della morte era giunto al capolinea e i ragazzi erano scesi dai rispettivi teschi della morte, mi ero avvicinata barcollando e a braccia spalancate verso Jonathan, come se lui fosse il miraggio di una sorgente d’acqua dolce e io la superstite di un naufragio. Notai un’ombra di preoccupazione nei suoi occhi da volpe, ma fu solo un attimo. Avevo recuperato una parvenza di controllo su arti e deambulazione, così presi a darmi un gran da fare affinché lui notasse la sconcezza del mio vestitino di cotone leggero ed iniziasse finalmente ad interagirci, north-south. Verso mezzanotte, ben oltre l’orario accettabile per il mio rientro a casa, eravamo rimasti soli. Jonathan mi aveva proposto di trovarci un luogo appartato per chiacchierare. Avevamo eletto a luogo appartato per chiacchierare una location a me molto cara: il retro del supermercato dove ai bei tempi mi ficcavo con le mie amiche a fumarci le paglie di mia madre. Ci eravamo appoggiati alla vetrata, alla mia destra cassonetti pieni con i resti di frutta e verdura avanzate che mandavano una puzza tremenda. Ma la puzza e la menzione della puzza erano cose che a quattordici anni mi imbarazzavano profondamente, pertanto decisi di tenere la bocca chiusa. Le luci dall’interno illuminavano la sua chioma bionda e la facevano sembrare un’aureola, mentre la faccia, nell’oscurità, aveva assunto una tonalità grigia che lo faceva assomigliare ad un alieno strano e insalubre, che un po’ mi metteva paura. Avevo così tanto alcol in corpo che era come se il liquido non riuscisse più bene ad accomodarsi nello spazio limitato del mio stomaco e avesse perciò preso a scorrermi dalla testa ai piedi, facendomi sussultare e vibrare. Jonathan, al contrario, sembrava perfettamente padrone di sé. Mi aveva messo una mano sotto il viso, a scodella, quasi a raccogliermi la faccia che immaginai dovesse essere in via di liquefazione. Avrei voluto reggere nobile e fiera il contatto visivo, lasciarmi sussurrare parole dolci. Avrei voluto che mi invitasse a spendere le giornate seguenti assieme, a bere frappé dallo stesso bicchiere. Ma io non ero Cocca, né nessun’altra delle mie amiche che ormai sapevano how to handle those things. Mi schiantai su di lui, gli afferrai la nuca in una presa artigliata e gli spinsi la testa contro la mia, le sue labbra innocenti contro il mio sorriso acido. E gli ficcai la lingua in bocca di violenza. Lui ci era stato. Ma convinto no, non era affatto convinto. Sembrava più che altro volesse farmi una gentilezza per risparmiarmi l’umiliazione di un rifiuto. Finito di limonare mi riportò a casa. Mia madre mi aspettava nella sua vestaglia color salmone, i capelli appallottolati con scarsa cura sulla testa. Non mi rimproverò. Aveva scorto dalla finestra la figura di lui che si allontanava nel buio e mi aveva riservato un’espressione tra il paternalistico e l’ammiccante, che lasciai cadere con riserbo stoico. Il giorno dopo Jonathan non mi telefonò, nessun invito a prendere un frappé insieme. La cosa mi sconcertò, perché era successo tutto quello che mi aspettavo si fosse prefissato per la nostra serata e gli avevo pure risparmiato la fatica di architettarne l’effettiva messa in atto. L’ansia stava iniziando a serpeggiare in me, un enorme pitone viscido e scuro che mi sbatacchiava dentro facendomi fremere e temere per la mia reputazione e le sorti della mia estate d’amore. La scorza dura da cui bramavo anch’io di librarmi nelle mie nuove vesti di farfalla non accennava a cedere sotto le mie spinte. Presi il telefono. Trascorsi ancora un intero mese nella casa al lago. Jonathan mi lasciava fare. Non aveva mai attivamente declinato un mio invito a prendere il gelato assieme, o a bere birre da Luca e Giovanni o ad appartarci dietro al supermercato. Non mi impediva di mettergli le mani nei pantaloni né di leccarlo dalla base del collo ai lobi delle orecchie. E sembrava persino gradire quando gli prendevo le mani ossute e gliele posavo sulle mie tette. Ma non aveva mai scelto lui. Avevo l’impressione di avere tra le mani un cucciolo di cerbiatto raccolto dal ciglio della strada, zuppo di pioggia e malconcio per tutta una serie di peripezie vissute e per la cui sopravvivenza mi ero cristianamente immolata. La sua arrendevolezza aveva tutto il sapore di un’amara gratitudine, era una sorta di giogo morale da cui la sua indole remissiva gli impediva di affrancarsi. E su queste note avevamo tirato fino alla fine dell’estate, fino al giorno della sua partenza, che era fissata a pochi giorni prima della mia. Sua madre lo aspettava in macchina, il bagagliaio già pieno gonfio di tutte le loro valigie. Stavamo in piedi l’uno davanti all’altra e lui come sempre evitava accuratamente il mio sguardo, preferendo concentrarsi sulle sue ciabatte consunte di pelle marrone e sulle sue dita grigiastre e sabbiose. È stata una splendida estate. Il delfino sfoggiava il suo sorriso, reso sbilenco dai numerosi lavaggi. Non ho mai più sentito né visto Jonathan. Per le estati successive i suoi avevano deciso di mettere in affitto la loro casa sul lago e dedicarsi a viaggi più avventurosi. Poi lui era cresciuto ed era diventato un backpacker. Così stando alle informazioni che mi arrivavano da mia madre. Cocca e il Merda avevano tenuto duro fino all’autunno, si frequentavano pure in città. Poi lui le aveva dato il benservito perché Cocca lo aveva ripetutamente tradito con diversi compagni di scuola e non si era troppo curata di nasconderglielo. L’estate successiva, una sera che sedevo sulla cima di una roccia a contemplare l’infinità del lago e delle mie lune adolescenziali, un soffio di aria vischiosa mi aveva solleticato la schiena e penetrato le narici. Il Merda si era accovacciato di fianco a me, teneva i sandali in una mano, regalandomi la visione oscena dei suoi piedi. Con mia sorpresa, la sua presenza mi rincuorò e mi resi conto dalla sua muta vicinanza che condividevamo la stessa incapacità di leggere il mondo e un mucchio di domande cui per lungo tempo non avremmo saputo dare risposta. E accettai lui e quella nuova, accogliente consapevolezza con sollievo. Restammo in silenzio, lui si fece un po’ più in qua, a guardare il nulla, finché ci era concesso.
L’autrice
Alice Castegnaro ha 29 anni e vive a Milano. Alterna lavori nel mondo della moda e in quello della scrittura, con una spiccata predilezione per quest’ultima. I suoi racconti sono pubblicati sulle riviste Neutopia e Wertheimer.
