C’è una precisa sensazione che abbino alle storie che raccontava mio nonno. Lavori, aneddoti, qualche leggenda. Mai cose troppo surreali, solo cose vagamente strane, confuse. La sensazione era quella di un piacevole abbandono, un naufragio sicuro. Nel momento esatto in cui le ascoltavo capivo che erano bugie, in fondo, ma cosa non lo è, forse ripensandoci erano solo letteratura. L’arte di raccontare, in origine, si è nutrita proprio di queste cose.
La stranezza in un certo senso è il motore stesso della storia: l’eccezionalità soffusa che illumina eventi altrimenti trascurabili e si fa arte nel momento in cui ti fa girare la testa e ti addormenta. È vero, è falso? È un sogno?
Ben Okri sembra scrivere e parlare proprio in questo modo. Riesce a vagare fra la leggenda tramandata oralmente e l’esistenzialismo come pochi altri scrittori al mondo: sulle sue pagine aleggia un’Africa invisibile e sconfinata fatta di ricordi e presagi dolcemente annegati dentro un fluire lento di visioni, sogni, dialoghi che hanno il profumo e la forma mutevole della fiaba senza tempo.

I suoi racconti non hanno mai fretta, sembrano anzi visioni di un universo in cui il tempo non esiste, non come lo intendiamo noi: si prendono possesso della carta con una lentezza vegetale, mettendo radici e fiorendo, e impiegano intere stagioni per diventare qualcosa di forte e duraturo, come una pinta, come il legno con cui altri edificheranno edifici e civiltà.
Non è facile muoversi a cavallo fra due mondi – la Nigeria e Londra, la veglia e il sonno – ma Okri sembra farlo senza fatica: non ci si stancherebbe mai di seguirlo mentre partecipa a un consesso segreto di Rosacroce o insegue una Bisanzio trasognata e ipotetica, mentre penetra nel lutto dell’estremismo religioso di Boku Haram o passeggia fra attori e poeti in un’Europa placida che sembra fatta apposta per flanêur e sonnambuli.
La sua prosa è così duttile da cambiare registro in modo radicale a distanza di qualche pagina: confeziona leggende che sembrano mitologie ancestrali e storie weird, attualità e introspezione si avvicendano sulla carta come dentro un sogno vorticoso e saziante, fra immagini delicate e prospettive impossibili, fra delizie e orrori che scavalcano i generi e le frontiere per regalarci un nuovo sguardo sul reale e sul mistero del mondo.
In uno dei racconti più riusciti dell’intera raccolta, “Misteri” non accade assolutamente nulla degno di nota: una cena, una passeggiata. Si tratta solo di atmosfera, presagi e intuizioni che fanno dire ad uno dei personaggi una frase potente e meravigliosa, capace di dar senso da sola all’intera scrittura di questo autore:
Forse abbiamo tolto al mondo il mistero di cui è fatto.
Come in tutte le short story di Okri, anche qui il confine fra illusione e realtà è estremamente delicato, sfumato. Ciò che conta non è capire e analizzare ma lasciarsi trasportare dalle suggestioni, mettere in dubbio la propria razionalità, naufragare.
Accoppiamenti giudiziosi
Le storie di Okri sono un caleidoscopio che supera i confini spaziali e temporali con trame rarefatte, impressioni, immagini sfuocate: la sua opera ricorda quella di un altro grande artista nigeriano, Yinka Shonibare, divenuto una vera icona della nuova arte britannica grazie alle provocazioni ironiche e coloratissime delle sue sculture senza testa ricoperte di wax africani.

I personaggi di Shonibare e di Okri si rivolgono come dovrebbero fare tutte le grandi narrazioni a qualcosa che sta dietro gli occhi dell’osservatore: qualcosa di assoluto o antichissimo che riesce a unire in un solo battito di ciglia la forza primordiale delle narrazioni orali e la vibrante modernità di un mondo veloce proiettato verso il futuro.
Ad accomunarli anche una forte spinta verso la reinvenzione delle tematiche e degli stilemi “classici” dell’arte africana: non è un caso che entrambi riescano a staccarsi dalla ripetizione pur senza rinnegare le proprie radici, ma anzi elevandole a punto di partenza per una riflessione originale, personale e profonda, capace di essere al contempo politica e metafisica.
L’Africa come luogo dell’anima rimane sempre dietro ogni storia, condizionandone toni e sviluppo, ma non invade mai il primo piano con situazioni stilizzate o elementi ormai canonici di un certo folklore ben lontano dalla ricerca artistica. In questo senso, lo sguardo di Okri e Shonibare si apre al mondo intero, sorvolando il globo alla ricerca di tematiche e problemi trasversali, comuni ad ogni essere umano.
La guerra, il dolore, la morte, il senso della vita sono spunti che la raccolta di Ben Okri tocca senza mai affondarci, vagando con la grazia e l’agilità delle leggende o degli appunti scarabocchiati su un bloc notes: a completarli sarà il lettore, se sarà capace di affacciarsi alla misteriosa oscurità del mondo senza volerla illuminare troppo, senza profanarla.
Come Okri, anche Shonibare mischia luoghi ed epoche nel tentativo – riuscitissimo – di creare qualcosa di assoluto, che riempia lo sguardo e smarrisca il lettore: poco importa se ciò avvenga per le strade opulente di una Bisanzio immaginata o nei ricami tortuosi delle stampe sugli abiti tradizionali africani. L’importante – nella vita come nella letteratura – è sapersi perdere.
