“Lapvona” di Ottessa Moshfegh

Del Medioevo si ha spesso solo un’idea confusa: quella ereditata dai rimaneggiamenti romantici, dai fantasy in edizione tascabile, dalle nozioni disorganiche apprese a scuola fra l’ora d’aria e le interrogazioni di matematica. Inventare il medioevo è quindi un’attività abbastanza diffusa, un hobby per veri amatori, anzi uno sport.

Come tutte le attività sportive sembra facile finché lo vedi praticato dai professionisti: qualche drago qua, qualche sovrano là, eppure se proviamo a immaginare il nostro personale medioevo inevitabilmente finiamo per arenarci in qualche cliché senza slancio, come se a forza di ripetizioni e fotografie col flash i secoli bui avessero perso il loro allure misterioso e vagamente terrificante per diventare una sordida recita delle elementari.

Anche per inventare il Medioevo, insomma, ci vuole talento. Per fortuna ne è provvista in abbondanza Ottessa Moshfegh, autrice di racconti e romanzi di tutt’altro genere che decide – con Lapvona – di prestare la penna e la voce a una vicenda solforosa che germoglia come muschio al centro ribollente di un Medioevo immaginario eppure stranamente plausibile.

La storia che ci viene raccontata – come davanti a un focolare – è la parabola tutt’altro che edificante del giovane Marek, bambino deforme dai capelli rossi destinato nel corso di un solo anno a vivere come pecoraio reietto e come nobile per sperimentare come un novello Tiresia entrambi i lati di un’esistenza umana comunque atroce.

Jonas Burgert, Suchter (2013)

Attorno alla sua figura ambigua e meschina, la narrazione tessuta da Ottessa Moshfegh si arricchisce di spessore e vitalità grazie a un carnevale di personaggi sempre negativi, che popolano l’immaginario villaggio di Lapvona con la loro fede bigotta, le loro superstizioni, la loro grettezza: ci sono banditi prezzolati, fratelli che stuprano le sorelle, genitori violenti, nobili annoiati e perversi, preti bugiardi, vegliarde prodigiose che allattano uomini adulti.

Ci sono omicidi, stupri, cannibalismo, coprofagia, mutilazioni, pedofilia. C’è soprattutto fame, in questa terra martoriata dalle stagioni e dalle bizze dei potenti che si accaniscono sul popolo come divinità scriteriate ed egoiste, perché il corpo e i suoi limiti terreni sono il fulcro di queste lettere oscure, che si approcciano finalmente al ventre molle della storia europea senza manierismi e senza sconti, mettendo su carta la merda e il disagio che secoli di lavaggi e maquillage hanno addomesticato in una favola esausta senza magia.

In Lapvona invece coesistono la crudeltà dei corpi – martoriati, stremati, sfruttati – e l’oscurità dei prodigi insipiegabili per la ragione: servi e streghe si contendono così un posto dentro un ambiente permeato di una religiosità ancora primitiva, sullo sfondo torbido di atrocità e delitti che ricordano le crudeltà che il genere umano ha progressivamente sdoganato e imparato ad accettare a partire dai grandi eccidi dell’età contemporanea.

Jonas Burgert, Sud (2015)

Sono uomini, sono animali: i protagonisti di questo romanzo atipico si agitano nelle loro stesse miserie, fatte di povertà o di ignoranza ma anche di stupidità e potere, mentre fanno crescere una storia che sa allo stesso tempo di mito e di cronaca nera.

Lapvona descrive un panorama umano che riesce a superare le barriere di un preciso collocamento storico perché si affida completamente all’esplorazione dei personaggi attraverso i loro lati più cupi: la coerenza più che il realismo è il tratto distintivo di questa storia che – pur nel fiorire di elementi misteriosi o apertamente fantastici – non scivola mai nell’assurdo e non contraddice le logiche atroci di un universo che sembra schiacciare i suoi abitanti partendo dai loro bisogni primari per toccare l’essenza indistinta e intima della loro umanità.

Cos’è un essere umano? Fino a che punto si resta umani?

Jonas Burgert, Stickstaub (2013)

Accoppiamenti giudiziosi

Le interazioni con gli animali rivestono un ruolo fondamentale e lasciano aperti molti interrogativi sulla simbologia che le varie creature rivestono nel loro comparire sulla scena: i lapvoniani poveri non mangiano carne, la vecchia guaritrice Ina parla con gli uccelli, i nobili uccidono animali per mangiarli e anche per impagliarli, gli agnelli nascono e muoiono vorticosamente nel gorgo di vite spremute e buttate che si susseguono incessanti sulle pagine, quasi a segnare un parallelismo fra la condizione umana e quella delle bestie che finiscono per rassomigliarsi e mischiarsi anatomicamente e spiritualmente in un unico indistinto amalgama di colori e odori che sembrano quasi traboccare dalla pagina.

Un simile processo viene impiegato da Jonas Burgert per la realizzazione delle sue spesso monumentali opere d’arte. L’artista tedesco, da tempo instradato su una personalissima ricerca fatta di inquietudini e intrichi di personaggi sfuggenti, riesce infatti a cogliere l’essenza di un genere umano malandato e afflitto grazie a un singolare impasto grafico che ibrida oggetti (rifiuti?) ed esseri viventi in composizioni al limite del delirio.

Jonas Burgert, Euchmeute (2013)

Il percorso seguito in parallelo da Burgert e Moshfegh procede da un passato adombrato e primitivo verso un’evoluzione fatta di trasformazioni mostruose e abissi di pura atrocità, scorrendo fra bambini travestiti, scheletri, animali, nastri, folle inferocite.

L’arte di Burgert – ancorché modernissima nella sua resa grafica e nei suoi messaggi difficili da decriptare – pare intimamente collegata a certi influssi del Medioevo e di alcune usanze ancora più antiche: non è un caso che si concentrino attorno al Carnevale, alla commedia dell’arte, alla ritualità, a un disordine fatto di cunicoli e sporco che ricorda da vicino il tessuto urbano caotico di alcune città medievale.

Ciò che segna però un vero punto di contatto fra i due artisti è l’eccesso: da un lato manifestato in opere enormi, ricche di dettagli e di personaggi complessi, dall’altro reso evidente da una galleria di atrocità raccontata in modo spietato e virtuoso.

Lapvona riesce – come i dipinti di Burgert – a proporsi come un oggetto artistico profondamente innovativo, grazie all’ibridazione che effettua mischiando tempi storici e registri diversi, forte forse della lezione postmoderna impartita all’autrice da molti giganti della letteratura americana.

Ottessa Moshfegh stupisce, disgusta e delizia come solo le grandi voci sanno fare.

Ancora una volta si reinventa e arricchisce il suo percorso multiforme con questo volume anomalo e con la sua prosa ambigua, che richiama l’allegoria dei testi medioevali senza però offrire alcuna morale o insegnamenti, forte solo del vuoto e della mancanza di senso che affliggono l’uomo moderno e che dischiudono, fra le pieghe di un passato inventato, scorci di abbacinante modernità.


Lapvona

Ottessa Moshfegh – Feltrinelli, 2023


Tutte le immagini sono incorporate dal sito dell’artista. Dipinti: © Jonas Burgert – fotografie: © Lepkowski Studios

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