“Magnificat Amour” di Isabella Santacroce

Ho conosciuto Isabella Santacroce negli anni più fragili di ciascuno, una presentazione alla Feltrinelli di Piazza Piemonte, a Milano. La giovinezza, la solitudine, il ritardo, l’attesa, lei che compare vestita di piume come una divinità antichissima, la sua voce inconfondibile che danza sulle parole mentre accoglie i lettori nel suo mondo dolce e spietato.

È inevitabile per me ripensare all’adolescenza – alla mia adolescenza, almeno – quando si parla di Isabella Santacroce.

L’explicit di Fluo lo porterei tatuato sul cuore, se avessi abbastanza spazio, se avessi abbastanza pelle. Mi è impossibile rimanere imparziale davanti al suo ritorno.

Cosa ho ritrovato: il suo ritmo, le sue ossessioni, i suoi personaggi femminili indomiti e delicati, l’amore che ti scuoia, le epifanie.

Andrea Kowch, Soirée (2019)

La sua prosa è la stessa di una volta, la medesima miscela di incanto e profanazione. La sua voce si muove sicura sul crinale che separa la poesia dalla prosa senza sbavature, fra dannazione e grazia. Eppure Isabella è diversa, nella sua ultima fatica intitolata “Magnificat Amour”, è più consapevole, più abissale.

La vicenda che ci racconta è qualcosa di già intravisto nei suoi precedenti lavori, è il tarlo che ritorna periodicamente nei suoi scritti sotto luci diverse ma con la stessa potenza espressiva: la divisione fra due personaggi femminili contrari e complementari, la santità respirata di sfuggita in uno squarcio improvviso di lirismo, la luce nell’oscurità di un passato trascorso e immortalato grazie alla scrittura, all’arte.

Eppure Magnificat Amour significa autobiografismo, significa revisione di sé ed esame delle proprie tenebre, significa ricordo e futuro perché si diverte coi tempi e con le voci mentre soffre con i suoi personaggi e matura insieme a loro.

È la storia di Lucrezia e Antonia, cugine e nemesi, l’una bellissima e fatale, l’altra bruttina e profonda. Con loro Isabella, l’autrice, il suo diario, l’angoscia dell’adolescenza che esplode e del tempo che cancella i suoi trascorsi erodendo la memoria in un caleidoscopio di visioni dissonanti.

Ci sono Riccione, l’estate, Roma, Antonia Pozzi ed Emily Dickinson, il lusso esibito come una corazza, la delicatezza dei corpi privati del loro carapace di marchi e sicurezze, le simmetrie e le storture, la trascendenza verso la divinità o verso il soprannaturale, la confusione di epoche diverse nel medesimo istante eterno, quello della lettura, quello della scrittura.

Andrea Kowch, An Invitation (2013)

La voce di Isabella Santacroce emerge sempre, anche se a parlare sono altri personaggi: ogni elemento del romanzo concorre a delineare un aspetto della sua autrice, un determinato momento storico o una sensazione precisa che è impossibile immortalare se non con un’immersione totale dentro la carne e lo spirito di qualcun altro.

Leggendo quest’ultima fatica si ha spesso l’impressione di trovarsi davanti a un’opera conclusiva di un ciclo o di un’epoca artistica molto più lunga della sua effettiva stesura: è una summa di tutta la sua produzione precedente, un impasto di diari e frammenti che si accompagnano all’idea portante ora sovrastandola, ora proteggendola, ora lasciandola crescere liberamente. Ci si ritrovano frasi già captate sui social della sua autrice, negli altri suoi libri, come se vita reale e vita narrata si sublimassero a tal punto da coincidere o almeno sovrapporsi in una miscela incantata.

Resta sul fondo, sempre, un netto bisogno di finire e definire, di definirsi, senza mai togliere del tutto il velo che fa dell’autrice un personaggio e viceversa, per non profanare il mistero che separa il lettore da tutto ciò che sta dietro la carta stampata: processi di scrittura, ripensamenti, influenze, introspezione, trascendenza.

Il libro diventa così uno schermo ma anche una lente, un figlio di carta che rivela già ad una prima occhiata una somiglianza innegabile con chi l’ha generato: Isabella Santacroce si conferma in quest’ultimo lavoro un’irregolare, una provocatrice e una innovatrice arrivata a un punto tale della sua maturazione artistica da poter ignorare regole e suggerimenti per creare, completamente libera, assolta e assoluta, qualcosa di veramente autentico, originale, profondamente suo.


Accoppiamenti giudiziosi

Le donne di Isabella Santacroce me le immagino come le protagoniste dei dipinti di Andrea Kowch.

Mentre leggo le sue parole riesco quasi a vederle, con i capelli battuti dal vento, mentre si aggirano stralunate per una cucina o su una tovaglia da picnic, corteggiate da ogni tipo di animale. Eredi di una strana fascinazione gotica, delicate e letali, trasognate, sono sempre riprese nell’attimo sospeso di un’azione ordinaria eppure magica.

Sono streghe, sono sacerdotesse? Le guardiamo modificarsi e crescere, affacciarsi identiche da diverse storie come i passeggeri di una nave dagli oblò deformanti.

Andrea Wyeth, Sojourn (2011)

Come la loro autrice, anche Antonia e Lucrezia sembrano incorporee e fragili, ma rivendicano ad ogni pagina la loro corporeità, un rapporto diretto con la carne, l’ebbrezza, il piacere oppure il castigo, il dolore. Sono figure inquietanti e meravigliose, attorniate da cose piccole che diventano amuleti e memorie, perseguitate in egual misura dal passato e dal futuro e proprio per questo motivo fragilmente legate a un presente sottilissimo che pare sempre sul punto di infrangersi.

La Santacroce è la migliore interprete dell’adolescenza, lungi da sentimentalismi e soluzioni affettate: il suo approccio maturo e visionario è l’unico che riesca a riassumere in poche frasi la complessità e la bellezza dell’età più delicata di ogni essere umano. È in questo che si riversa la potenza dei suoi personaggi, sospesi fra nostalgia e profezia come strane profetesse ferite e inascoltate.

Proprio come le streghe, i personaggi di Andrea Kowch e Isabella Santacroce hanno infatti una strana connessione con gli animali – corvi, cigni – perché interpreti di un legame che attraverso l’arte o la parola riesce a creare una comunione invisibile tra i diversi esseri viventi e il mondo in cui si muovono.

Ciò che la pittrice americana riesce a mettere su tela è soprattutto l’atmosfera di sogno (o incubo) che attraversa l’intero Magnificat Amour: i suoi personaggi sfumati, il mistero della musica e della scrittura, i paesaggi abbandonati in un languore che sembra allo stesso tempo di sonno e di morte.

Andrea Kowch, The Feast (2013-2014)

Antonia e Lucrezia nella loro storia spezzata s’intravedono e si scontrano, trapassando il tempo come un ago, e diventano i poli opposti di un sistema opaco e ineguale che le unisce ora al musicista Manfredi, ora a Suor Annetta, ora alla stessa Isabella. Il libro è la cartografia sporca del loro passaggio, è l’esame impietoso di ciò che resta, di ciò che è irrimediabilmente trascorso senza essere mai realmente avvenuto.

Sono reali, sono allucinazioni? Sono invenzioni. Come le protagoniste dei dipinti di Andrea Kowch forse sono diversi riflessi della stessa personalità: sono la stessa donna ripresa in contesti differenti, sono metà contrapposte di una personalità frazionata, sono l’incarnazione di un dissidio interiore fra fulgore e purezza, fra carne e cielo, fra maledizione e redenzione. Sono soprattutto entità incorporee capaci di far comunicare – grazie alla loro fragile esistenza di carta – l’esperienza, l’immaginazione e la sensibilità di una delle più grandi autrici italiane di sempre con il nostro mondo disilluso di carne e di terra.

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