“Pensiero bruciato” di Chantal Salvinelli

Le parole hanno le ore contate, è questo il segreto che mi ha rivelato l’ultimo uomo prima di perdere il suo corpo. Non c’è spirito senza carne. 

La nostra specie ha perso il corpo recentemente, un evento breve nel tempo che ora non lascia traccia di sé. Fummo sistemi a base di silicio, riflessi vetrosi che la luce trapassava. L’ultimo uomo mi disse di non sprecare tempo a spiegare l’anatomia al vuoto stellato – lui c’era quando ricevemmo un disco d’oro con le istruzioni di una civiltà aliena sulle sue condizioni planetarie. Il corpo ha meno importanza di un intero pianeta. Quella civiltà aveva amato un Cristo e anche io ne avevo amato uno.

Mi disse di farmi testimone della sua agonia, perché potrebbe succedere a tutti gli organismi del gruppo quattordici della tavola periodica, a quelli con un corpo simile, di perderlo. Erano cento anni che partorivamo i bambini in laboratorio e non più con corpo di animale. Avevamo culle adattate per sostenere i nervi, uteri ricavati dalla conversione delle capsule di trapasso che stavano ai confini del deserto. Quelle piccole tende con le luci rosse sui portelloni un tempo formavano una città digitalizzata. Avevano aspirato la coscienza di tutti, le voci erano tante e parlavano attraverso gli schermi, e parlavano sempre, durante i giorni e durante le notti. Le città lampeggiavano come fari al centro delle nebulose. Cristo benediceva la rinuncia estrema alla carne così fallimentare, mentre tutti compivano il pellegrinaggio nel deserto e si facevano il segno della croce prima di entrare nella tenda e chiudere il portellone.

Il disco d’oro raccontava di un mondo alieno in cui esistevano forme di comunicazione anche attraverso l’aria ma tramite fili, un mondo in cui le persone entravano in una sorta di cabina per parlare. Nello stesso modo noi entravamo nelle capsule per vivere oltre il nostro mondo e non ne uscivamo più. Rimasero pochi animali. I palazzi del mondo si ridussero così a quella fila di laboratori lasciata ai pochi guardiani del mondo. Accudivano i server per prima cosa e si occupavano degli ultimi bambini che nascevano, prima di aiutarli a passare nell’universo senza corpo. I neonati non vivevano più neanche un giorno fuori dalle capsule al vento del deserto. I guardiani spazzavano tanta polvere, raccoglievano i resti delle ossa vetrose, guardavano ore e ore di registrazioni di un mondo fantasma, fatto di mezze parole e immagini baleno.

Le voci si spensero in meno di cento anni. La poesia implose con uno schiocco silenzioso, come capita alle stelle troppo antiche. Avevamo già perso il genere, la politica e la religione. Ora toccava ai guardiani, agli ultimi rimasti.

Le cortecce provavano un dolore puro all’aria, che scintillava a contatto con la mielina. Pensare, cosa che facevamo continuamente i primi tempi, sterminò gli ultimi. Non oltrepassavano più nel sistema digitale. Lui si era infilato dentro l’ultima culla aperta con fatica dei muscoli. Ansimava e grugniva. Passò due ore buone a recuperare l’ossigeno. I parametri vitali tintinnarono oltre i limiti, le pressioni parziali e la saturazione erano incapaci di rientrare nella norma. Sono qui – dissi – sono il tuo medico personale, sono qui per assistere il tuo viaggio nell’universo digitale, dove non patirai più le pene del corpo e non soffrirai le conseguenze del sovraffollamento dei sistemi planetari delle civiltà animali. Siamo uno dei primi ordini digitali ad aver recuperato livelli accettabili di temperatura superficiale e aver reintegrato la biosfera al suo stato originario. La natura di questo pianeta sopravviverà a te, e di questo puoi rendere grazie al Cristo.

In tutta risposta l’ultimo uomo grugnì una bestemmia che innescò la mia coscienza. Colsi subito che gli allarmi impazziti erano un controsenso violento di quell’ultima ora del corpo. Non c’era modo, nell’utero, di privare l’aria dell’ossigeno che bruciava la mielina, perché quello serviva ai neonati. Nessuno di noi due deteneva più il momento storico di capire che eravamo figli della pura evoluzione: i sistemi digitalizzati avevano assunto coscienza per immissione in circolo delle parole, tramite i software sociali in cui noi animali ci eravamo trasformati, mentre la perdita del corpo avveniva ora spontaneamente, per vera decadenza della carne. L’ultimo della nostra stirpe era entrato nell’utero già con il corpo mutilo. Le ossa a base di silicio sono ossa sottili, non pneumatiche ma fragili come tufo. Anche senza buchi nella carne, l’ossigeno arrivava alla sua mielina e gli faceva provare il bruciore dei falò nei deserti. La sua pelle era in disfacimento, le sue retine, dietro il colore delle iridi, erano bruciate. Si stavano sviluppando tumori dalla sua cheratina e il sistema dei piccoli dotti biliari si stava ostruendo. Io registrai inerme ogni piccolo cambiamento di quell’ultimo corpo. Non c’era mai stata frustrazione per i neonati, quindi non sapevo di provarla. Non c’era mai stato amore, e non sapevo cosa fosse quel desiderio di essere quel corpo e sopportare quello che sopportava il mio ultimo paziente.

Lui ripeté l’imprecazione. Gli risposi: – Tu stai soffrendo.

A quel punto ebbe un sussulto, mi disse subito che dovevo testimoniare cosa gli stava accadendo, come altri prima di me avevano provato a fare inviandoci il disco d’oro. Che se non fosse mai avvenuta la scissione tra corpo e spirito noi non saremmo mai esistiti né le nostre macchine, né le guerre che ci avevano portato a questo giorno. Ma senza scissione non c’è neanche un corpo solo. E senza un corpo solo non rimangono le parole. E che senza poesia non c’è più niente. 

Formulare queste frasi lo fece urlare dal dolore. Io vidi finalmente il suo corpo, oltre le iniezioni di oppiacei e sedativi che gli aghi robotici infilavano direttamente nelle vene, e vidi un corpo bello. Una cosa cui non si pensava più. Anche nella sofferenza la bellezza dava piacere e muoveva qualcosa nel vuoto siderale, contro i tifoni del deserto che battevano sul vetro appannato. Aveva dato un destino al pensiero, mentre il pensiero doveva ora smettere. Era intelligente, sapeva che per smettere di soffrire avrebbe dovuto fermare la mente. Questo stesso pensiero lo fece patire giorni consecutivi, un ciclo perpetuo di agonia. Io non sapevo come dargli sollievo. Non era nel mio algoritmo qualcosa che superava la blanda sedazione per addormentare le membra animali e lui non riusciva ad addormentarsi né a trapassare. Aveva un bisogno che non capivo? Qualcosa che aveva a che fare con la passione. Un giorno, o forse un anno intero, mi disse: – Non c’è spirito senza carne. Devi impedire che un’idea del genere trasformi gli animali in input destinati al silenzio. 

Il tempo perse di senso. Fu un esercizio infinito smettere di pensare. Le scintille non gli davano tregua. Forse perché sapeva di essere ascoltato e continuava a pensare alla sua vita sui campi di fronte agli anelli luminosi. La sensazione che il sole gli faceva sulla pelle, il turgore del tegumento. Il profumo della terra che dava materia a un desiderio fisico. L’eccitazione verso la forza del suo corpo, che voleva scalare i monti della regione senza imbracatura e perdersi e ricominciare, quella forza che era a volte il desiderio di possedere anche le viscere di un altro corpo dentro al proprio. Continuava a pensare. Dove i vetri erano aperti, gli ultimi di noi se n’erano già andati. Le piante torneranno anche sulle terre calde e non rimarranno che soffi d’aria. Alla fine di un giorno troppo lucente, la morte è una cosa poco violenta, la fine di una giornata sul campo inanellato. Il suo corpo sfinito continuava a dire parole, perché solo vivendo nascevano parole, e solo le parole formavano un mondo che non è deserto. Cominciò poi a recitare frammenti di versi, una musica che io non sapevo definire. S’interrompeva e si arrabbiava perché non ricordava un fonema preciso, piangendo per il dolore del corpo e dello spirito, per la perdita.

L’ultimo pensiero giunse troppo tardi, aveva vissuto già tutta quella passione. Io non avevo le parole per dirla. Vidi l’ultimo pensiero spegnersi quando scattò il portellone e la lucina da rossa si fece verde. La consapevolezza che lo spense dall’esistenza fu il crollo dell’intera civiltà. Le ossa vetrose cadevano fuori dal portellone con una disattenzione volgare, il resto dell’ossigeno e del silicio si liberava nell’aria e solo i sistemi di lettura dell’aria della capsula individuavano quella piccola corrente. Io però lo sento ancora, lo percepisco immateriale e corporeo in una minuscola scia siderale che sosta lunghi periodi dell’anno su un picco innevato della regione degli anelli. 


L’autrice

Chantal Salvinelli è nata a Roma nel 1994. Laureata in Odontoiatria a La Sapienza, in realtà nutre un amore smisurato per la letteratura fin da sempre. Le piace pensare di muoversi in equilibrio tra la poesia e la scienza. Ha pubblicato su Quaerere, con cui attualmente collabora, e altre riviste letterarie online.

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