“I dipendenti” di Olga Ravn

Ci sono romanzi pensati per catturare il lettore, storie accattivanti che ci soggiogano per capitoli interminabili e ci fanno naufragare, sognare, evadere, ci sono avventure e storie d’amore e fughe piacevoli e poi ci sono opere come questo romanzo: brevissime, incisive, che hanno il solo scopo di illuminare.

Non si tratta delle luci asettiche di una sala operatoria – fari che chiariscono tutto annullando l’idea stessa di ombra – quanto piuttosto spiragli sottili da cui sbirciare, per un solo istante di pura rivelazione, qualcosa di enorme e accecante.

È dunque un lampo quest’opera di Olga Ravn, penna raffinatissima importata dalla Danimarca per i tipi de Il Saggiatore: I dipendenti è una collezione di frammenti raccolti a romanzo, capitoli velocissimi che – in paragrafi densi, puliti ed enigmatici – riescono a rischiarare per un solo istante un intreccio di tematiche poderoso, complesso, vagamente incomodo.

Marguerite Humeau, The Dancer I. A marine mammal invoking higher spirits (2019)

Già dal titolo possiamo apprendere una suggestione sulla direttrice che Ravn seguirà nelle poche pagine cesellate di questo piccolo gioiello speculativo. In una vertiginosa salita: il lavoro, il senso del lavorare, lo scopo della vita, la vita, il confine labile fra vita e non-vita, il conflitto fra biologico e sintetico.

Come tutte le grandi opere di fantascienza, nel lavoro di Olga Ravn a sostenere un impianto teorico estremamente ambizioso è soprattutto l’idea, l’intuizione luminosa che si fa strada negli occhi del lettore come un fulmine violento destinato a dissipare le tenebre per un singolo istante: è una storia che possiamo conoscere solo de relato, dalle testimonianze dei lavoratori di un’evanescente astronave gettata dall’ingegno umano nel cuore dello spazio profondo. Ci sono umani e robot, dipendenti in ambo i casi, ci sono le loro parole sospese attorno a una missione mai chiarita completamente: custodire alcuni oggetti misteriosi, organici quanti può esserlo un delirio febbrile, attenersi a regole e protocolli, lavorare.

L’ambiguità fra le testimonianze degli impiegati robot e di quelli in carne ed ossa non è però l’unica zona oscura di una narrazione precisa e sfuocata quanto serve per creare un efficacissimo alone di mistero: sono gli oggetti innominati, vere allucinazioni senza scopo e senza senso, a costituire un ingranaggio fondamentale per confondere il lettore e demolire le sue certezze.

Marguerite Humeau, The Dancers III & IV. Two marine mammals invoking higher spirits (2019)

Questi strani reperti infatti paiono da subito difficili da descrivere e da comprendere, non servono a nulla eppure sono l’obiettivo principale di un lavoro che dà l’impressione di essere delicato e importantissimo: ricordano corpi oppure organi, sono strumenti, sculture, progetti, scrigni da rompere o gusci da preservare, sono oggetti che si ribellano alla passività per rivendicare un ruolo da soggetto, da protagonista.

Nel ventre compatto dell’astronave, in questo modo, la cosa più inutile si rivela essere proprio la più preziosa: la vita.

Ieri, dopo la riunione, mi sono di colpo reso conto di trovarmi seduto nella stanza con uno degli oggetti in grembo, e appena ripreso completamente conoscenza ho notato che lo accarezzavo con il pollice, come se fosse qualcuno che amavo, anche se non ho mai provato amore, eppure, in quel momento, prima che capissi bene quello che stavo facendo, ero pieno d’amore e sapevo, come si sa nei sogni, che cosa vuol dire amare una cosa viva.

È un confine difficile da definire, in un ambiente sintetico continuamente contaminato dall’ambiguità del personale e dei suoi automatismi: cosa distingue la vita da tutto ciò che le sta attorno, inanimato? Chi è il soggetto e chi l’oggetto, in un mondo del lavoro che si protende sempre di più verso il prodotto per dimenticare le persone, i loro sforzi, il loro ruolo come produttori e consumatori in una catena di creazione e distruzione così disumanizzante da sembrare un incubo?

Le domande sono molte e sono sicuramente molto più importanti delle risposte.


Marguerite Humeau, Kuroshio (2022)

Accoppiamenti giudiziosi

Sembrano deliri usciti dalle pagine di Olga Ravn anche le installazioni di Marguerite Humeau – combinazioni di passato e futuro che si tendono e flettono per cercare una sintesi suprema fra l’ingegneria e il rito, la medicina e la scultura, la scienza e la religione.

Le linee di queste sculture sono allo stesso tempo pulite e articolate, ritorte in pose e forme prese in prestito dalle fantasie di un designer ossessionato dalla pulizia o dalle illustrazioni di un libro di biologia aliena: il mistero, vero motore dell’intelletto umano e della curiosità, sembra così rapprendersi in superfici ora levigate ora opache che s’intersecano e combinano in soluzioni ardite, incomprensibili, creature ibride che sono al contempo sintetiche e biologiche, vive e inanimate, passive e predatrici.

Sono soggetti, sono oggetti? Nelle mani di Humeau, la materia diviene in questo modo configurazione plastica di dubbio e provocazione: la vita viene definita in negativo dal sommarsi di visioni difficili da comprendere, sospese sopra categorizzazioni e analisi razionali, come nel romanzo di Olga Ravn, grazie all’accordo dissonante di materiali e forme incompatibili. Si susseguono metalli, sostanze chimiche, suoni che si combinano verso strane infiorescenze o radici, organi, componenti industriali, animali, oggetti comunque incomprensibili che alludono alla nostra quotidianità senza mai rivelare troppo della loro reale natura.

Marguerite Humeau, Yuyi. The desire to feel intensely again, the wish you could see things with a fresh eye. Inspired by the plant Fumaria, that bears the signature of blood vessels and supports blood activation (2022)

È una trappola per l’umanità, o forse anche un’opportunità per trascendere. In un crescendo minaccioso e seducente, Olga Ravn lascia trapelare profezie stranianti e ambigue simmetrie fra umani e macchine, in un rapporto che mette in discussione ogni razionalità grazie agli oggetti misteriosi, al loro ruolo centrale eppure defilato, alla loro capacità di insinuarsi dentro schemi che confondono, sezionano e sovvertono il significato del sentirsi umani.

L’osservatore, naturalmente aduso a un criterio istintivo di classificazione degli oggetti basato sul loro utilizzo, non può che restare spaesato quando si scopre da solo coi propri interrogativi davanti a questi corpi anomali: è normale chiedersi quale sia il loro scopo, a cosa servano, come se servire fosse una componente intrinseca di ogni cosa. È meno normale venire schiacciati da questa domanda, restare immobili di fronte a qualcosa che sembra provenire da un altro mondo ed essere annientati da questo dubbio, capace di minare le fondamenta della nostra stessa identità.

I personaggi di Olga Ravn sono in profonda comunione con questi oggetti: sono definiti come tutti da un lavoro, da uno scopo, ma sono anche limitati dalla loro stessa mansione a un ruolo comodo e gestibile che esclude ogni complessità e con essa ogni forma reale di vitalità. Come davanti a un’enorme catena di montaggio in cui tutto sembra avere il proprio posto, utile e marginale allo stesso tempo, il dubbio più atroce che può assalire un osservatore di fronte ale opere di Humeau è chiedersi quale sia il proprio posto nella complessa articolazione del reale: sono un soggetto o un oggetto? A cosa servo?

Marguerite Humeau, Venus of Courbet, A 80-year-old female human has ingested the brain of a swallow (2018)

Robot e umani si confondono così nei paragrafi con cui Olga Ravn scolpisce l’universo claustrofobico della sua astronave: tutti hanno uno obiettivo, un lavoro, qualcosa verso cui struggersi. Cosa resta però della vita quando l’obiettivo è raggiunto o irrimediabilmente compromesso? Qual è la realtà che esiste fuori dallo scopo per cui ognuno è progettato o selezionato, allevato, istruito? Cosa esiste insomma alla fine del lavoro?

Come una scultura di Marguerite Humeau, questo romanzo ci permette di vedere le simmetrie inquietanti che sussistono fra la nostra vita di esseri senzienti e la passività maestosa e incosciente delle cose che esistono a prescindere dalle nostre personali odissee: ci illumina così, terribile come un incendio improvviso, l’idea che siamo tutti strumenti di dubbia utilità, che siamo cose fabbricate per lo svolgimento di un compito che non riusciamo a comprendere, utensili mossi da mani che non possiamo in alcun modo influenzare, che in fondo, nonostante tutti i nostri sforzi alla ricerca disperata di uno scopo supremo, forse siamo tutti perfettamente, irrimediabilmente inutili.


Le prime due immagini del presente articolo sono incorporate da Studio International, le successive da The Warehouse.



I dipendenti

Olga Ravn – trad. Eva Kampmann – il Saggiatore, 2022


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