“Fuga dagli ideali borghesi” di Sabrina Costa

Apparteneva alla Roma dei salotti eleganti, delle scuole bilingue e degli sport elitari.  Ci apparteneva dalla nascita, così come i suoi amici. Come loro cercava di camuffare le sue origini, per senso di colpa o spirito di ribellione, non l’ho mai capito, infilandosi in abiti neri tutti uguali e frequentando teatri occupati. Non parlava mai della ricchezza di famiglia o dei destini già scritti. 

Quando lo avevo conosciuto, Gianpaolo aveva ventitré anni e girava la Spagna a bordo di una motocicletta che era poco più di un ferro arrugginito. Indossava una maglia scolorita dei Metallica e un paio di jeans stracciati, un piercing sotto il labbro inferiore e uno sul sopracciglio destro.

Non sarebbe diventato un borghese come suo padre, mi disse la prima sera davanti a una lattina di Estrella sul lungomare di Malaga.

Lui quell’ambiente lo odiava, voleva fare la rivoluzione e presto sarebbe fuggito da quel mondo che era tutto patina. 

Mi ero trasferita da lui poco dopo. 

Mi aveva parlato della prima luce del mattino che illumina i tetti della città e mi ero immaginata a osservare Roma dall’alto con una tazza di caffè in mano, come in quei film romantici che guardavo al cinema dalla porta mentre staccavo i biglietti per mantenermi agli studi.

Finiti gli studi di economia cominciò a lavorare nell’azienda di famiglia. 

Con il nuovo lavoro iniziò la trafila delle cene con i colleghi, pezzi grossi di quella o di quell’altra azienda. Gianpaolo le considerava parte del pacchetto, diceva che stare con quella gente gli faceva venire l’orticaria ma che non potevamo farne a meno. 

Sfilava la cravatta sulla porta prima di premere il campanello,  sotto il labbro un buchetto minuscolo che tardava a rimarginarsi. 

In quelle serate su terrazze dalle vedute strabilianti osservavo i corpi delle persone che sempre mi parevano estranee fluttuare tra sculture in marmo e installazioni d’arte che non degnavano di uno sguardo. I bicchieri di cristallo trattenuti tra due dita, il rossetto acceso sulle labbra fino alla fine della serata, gli orecchini vistosi sfoggiati con nonchalance, le conversazioni mantenute su un piano superficiale. 

Trascorrevo ore intere in silenzio. Per tutti ero la fidanzata di e quel ruolo era l’unico a darmi dignità di partecipazione. Gianpaolo si avvicinava a me una volta o due al massimo, mi affidava un bacio veloce sulla guancia prima di allontanarsi.

Suo padre mi guardava da lontano, mi salutava sollevando il calice. Sembrava considerarmi parte di una ribellione giovanile che presto sarebbe passata. 

Sulla via del ritorno Gianpaolo pareva soddisfatto. Lanciava la macchina a tutta velocità e cantava entusiasta: li aveva fregati tutti, diceva. 

Quando tornavamo a casa  cercava il mio corpo con voracità, mi prendeva sulla porta di una stanza e mi teneva stretta a sé.

Mi lasciavo amare, di fretta e d’impeto con lo sguardo perso in un tempio con il tetto a spiovente. 

Mi infilavo la maglia dei Metallica per dormire. 

Un giorno mi chiese dove l’avessi presa.

Quel caffè con le prime luci del mattino alla fine non l’avevo bevuto mai.  Da quando ero arrivata a Roma mi ero sempre sentita in ritardo, come se la città fosse perennemente più avanti di dove ero io.

Non riuscivo a orientarmi in quelle strade larghissime, mi ritrovavo a vagare per ore senza arrivare da nessuna parte. Il mio tram viaggiava in direzione opposta a quella che avrei dovuto prendere, l’autobus su cui mi trovavo si incastrava in un tappeto di auto. 

Lasciai gli studi al terzo anno perché non riuscivo a studiare: dovevo alzare di continuo lo sguardo dagli appunti per controllare quando scendere dal bus. Cambiavo un lavoro dietro l’altro intanto che Gianpaolo scalava l’organigramma aziendale. 

Poi, su una delle terrazze più belle di Roma, il mio amore finì. 

Pochi giorni prima un caro amico di Gianpaolo, Marcello, era stato trovato morto. Non reggeva più la pressione, recitava il biglietto che aveva lasciato alla famiglia, non ce la faceva a essere sempre un passo indietro. 

Ma gli amici, Gianpaolo tra loro, erano tutti convinti che Marcello fosse una persona disturbata e per giorni si raccontarono episodi di stranezze per accertare un morbo, uno qualsiasi, e per dirsi che quella sorte non poteva toccare anche a loro. Che non si trattava della solitudine di quelle volontà spinte sempre al limite: che era lui a essere diverso.

Una settimana dopo Gianpaolo e i suoi amici erano stesi sui divanetti di uno di quei terrazzi, alle loro spalle le cupole illuminate del Vaticano. Si passavano uno specchio e ci si chinavano a turno, inspiravano polverine bianche e riemergevano con l’umore cambiato. 

Mentre camminavo per le strade di quel quartiere con le case dai soffitti alti, trascinandomi dietro le stesse tre valigie con cui ero arrivata qualche anno prima, mi dissi che Roma era complice loro e di tutta quell’indifferenza.

Com’è andata dopo. 

Ad accogliermi fu Torpignattara con i suoi negozi dalle insegne al neon e i palazzoni dalle facciate sbiadite riempite di disegni. In uno di quelli c’era la casa – una cucina, una camera da letto, un bagno e il divano sul quale dormivo-  che condividevo con Leena, una ragazza egiziana dalle mille passioni. 

Al mattino inciampavo nel suo corpo che si contorceva per salutare il nuovo giorno. Quando tornavo la trovavo che riempiva di pugni un sacco da boxe, dipingeva scenari cupi o piantava fiorellini colorati sul davanzale. 

Trovai lavoro nel chiosco di libri e fiori di Antonio, ex napoletano trapiantato a Roma, che mi fece scoprire il caffè migliore della città e mi presentò a tutti al mercato dove compravo la frutta.

Dopo qualche settimana trascorsa lì mi sembrava di riconoscere le persone che mi passavano accanto per strada, avevo memorizzato i nomi dei clienti più fedeli e riuscivo a trovare sempre la via di casa.

A volte mi stendevo sul pavimento della cucina con Leena solo per sentire il calore del sole nascente. 

Roma, allora, mi parve tutta possibilità.

Per le vie del centro una sera rividi Giampaolo. 

Riconobbi subito la sua aria spaesata tra le mille facce che mi passavano accanto. 

Pochi giorni dopo lo trovai nella mia cucina insieme a Leena, gli stava leggendo il futuro scoprendo le carte. Tu sei buono ma tua aura troppo instabile, concluse arricciando le labbra in una smorfia dispiaciuta. 

Quando ci trovammo soli mi abbracciò, mi disse che aveva sbagliato, che voleva andar via da quel mondo che era tutto patina e fare la rivoluzione.  

Ci amammo intensamente così come facevamo prima delle cene sulle terrazze e del lavoro nell’azienda di famiglia. 

La mattina seguente guardai la sua faccia affondata nel cuscino e la sua camicia dal colletto stirato abbandonata per terra. 

Lo svegliai e lo spinsi fuori dalla porta. Volevo fuggire dagli ideali borghesi. 


L’Autrice

Sabrina Costa è nata a Napoli, città in cui vive e lavora come consulente legale per amministrazioni legate al mondo della cultura. 

I suoi racconti sono stati pubblicati su “Quaerere”, “Spaghetti Writers”, “Kairós” e altre riviste letterarie.

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