“Rapporto di uno squassamento” di Arben Dedja

Si è fatta notte. Siamo in fila, ma senza una disposizione precisa: non ci sono squadre, plotoni, battaglioni e via dicendo. Stiamo zitti. L’attacco avrà luogo dopo mezzanotte. Succede sempre così. Al caldo dentro le nostre uniformi, aspettiamo il segnale per avanzare. I ranghi sono serrati spalla a spalla. Non saprei calcolare in quanti siamo in questa specie di lungo cunicolo: centinaia di migliaia, forse milioni. Più che un esercito, siamo un’orda. Ma probabilmente anche la parola “orda” è sbagliata. Perché non siamo dei barbari, feroci e crudeli. Abbiamo un obiettivo da raggiungere, tutto qui. E, checché ne dicano i capi, nessuna strategia. L’obiettivo non ce l’hanno mai rivelato per davvero. Ma noi lo sappiamo. In modo vago, ma lo sappiamo. Fa parte di quelle poche verità della vita che ognuno intuisce, perché gli si plasmano dentro. Il nostro obiettivo è qualcosa di grande, molto più grande di noi. Nelle nostre fantasie è qualcosa di maestoso, ma anche gli ostacoli per arrivarci sono grandi, direi insormontabili. Ciò malgrado, la speranza di sopravvivere rimane il nostro angelo custode. Come per tutti i soldati.

Non ci conosciamo tra di noi. E ne avremmo, in questa moltitudine, chissà un fratello, un cugino, un parente… Ma da quando siamo stati arruolati, non ci hanno mai fatti incontrare. Ora, la stretta delle fila e il crepuscolo rende tutto impossibile. Sul corpo, in testa, le nostre uniformi sono le stesse; perfino le attrezzature da combattimento le abbiamo identiche. Si sa che tutti possediamo solo due tipi di armi. Almeno così si dice. La mia si chiama “X”. Per ragioni di sicurezza non posso pronunciarne il nome. Il nome dell’altra arma lo ignoro. Conciati così sembriamo, forse, tutti uguali, senza personalità, con un pensiero unico in testa? Non direi. Ognuno di noi, un milionesimo del tutto, ha una sua coscienza genuina, anche se non la esprime. Regole militari.

La nostra uniforme è simile a quella dei marines. Anzi, si può dire ad alta voce che noi siamo dei “marines”. La carica avverrà in acque scure e pericolose dove non siamo mai stati. Passando per di là, prego Dio di condurmi verso la vittoria.

Da un po’ di tempo si vocifera che, alla fine della nostra missione, soltanto uno di noi ci riuscirà. Questo ci spaventa. Un brivido ci attraversa tutti, una fitta. Non ci vogliamo credere. È una chiacchiera e basta. E comunque, ormai indietro non si può più tornare.

Altre volte è capitato di prepararci per un attacco che poi veniva annullato. Una agripnia cronica ci ha preso tutti ormai, notte dopo notte. Ma oggi le sensazioni sono positive. Che succeda quel che deve succedere e che la nostra vita sia incoronata dalla vittoria. Vittoria o morte, ma in battaglia. Altrimenti ci aspetta la vecchiaia, la demenza, il quotidiano e continuo dissolversi verso l’apoptosi.

Ecco! È iniziato. Sento una specie di subbuglio, poi, piano, i miei sensi si acuiscono. Avverto uno sballottamento, simile a una nave che cozza sugli scogli e, in quell’attimo, come per ordine di una voce suprema, quelli davanti a me si gettano nella mischia. Lo faccio anch’io. Metto in moto le mie articolazioni (nel linguaggio tecnico: “meccanismo locomotorio”) le quali, constato con piacere, non sono state intorpidite dall’attesa. Il liquido dove mi sono calato è appiccicoso, bigio, abitato da chissà quali creature mostruose (generate dalla più sfrenata fantasia?). Le onde crescono, ci sfiorano; lo strano liquido ci entra nei pori, sento addosso la sua acidità. Davanti a me centinaia di migliaia di soldati. Naturale che si alzino schizzi, che un vento con un forte odore di foglie marcite me li sbatta sul volto intralciandomi il cammino: per fortuna che nell’equipaggiamento abbiamo anche il cappuccio che copre tutta la testa tranne la parte posteriore, dove si aggancia il manicotto. Nuoto. Mi sento veloce, leggero, messaggero di un buon auspicio. Iperattivo. Strano, perché intorno a me c’è solo devastazione, voragini che si aprono improvvisamente e che riesco appena a evitare, mentre i miei compagni spariscono precipitando dentro profonde spelonche. Una lunga scia di morte mi si estende davanti. Speranze naufragate. Non la mia, non ancora.

Vado controcorrente. E un’attrazione magnetica mi arriva da su. Questo canale che attraverso è più largo adesso, ma anche più pericoloso. Mi sento bene però, sono agile, sono argento vivo. E mi muovo, in continuazione. Striscio anche, nelle pareti: a volte è più comodo. In realtà lo faccio un po’ casualmente, solo per evitare i vortici e la nebbia che mi circonda con quelle sue fasce impalpabili e minacciose. A fiotti, un magma segreto mi sgorga da dentro. Ho girato per un attimo l’acrosoma e lì, non troppo lontano, ho intravisto un’ombra gigante, con la sua forma leggermente ovale. Ecco il bersaglio! La sua umidità mi chiama, quasi mi risucchia. Ha una sagoma seminascosta nel buio che mi ricorda, non so perché, il sogno confuso della contessa. Scalpito; sono sconvolto. Mi avvicino. Non ho più tempo per pensare. Posso solo aguzzare la vista e credere al miracolo, all’amore. Mi avvicino ancora. Davanti, la forma mi aspetta, coperta da una specie di pellicola a due strati. Ha una superficie abbagliante, ricamata di una corona radiata. Sento improvvisamente il bisogno di entrarci. Intanto, noto che anche altri soldati ci sono arrivati. Ci guardiamo per la prima volta. Ci conosciamo? Ho la sensazione che siano i miei fratelli e cugini – è finita, ho perso la gara? Loro ci sono già; conviene, forse, che mi nasconda con la coda tra le gambe.

Loro, però, una volta lì, pieni di furia, si spintonano fra di loro, disinteressandosi della membrana o del guscio durissimo che rode le loro teste. Ho un dubbio, una convinzione che prende forza: lo stanno facendo per aprirmi la strada? Vogliono essere martiri, purché io trionfi? Dio. Sono io l’eletto? Tocco la superficie dell’oggetto del mio desiderio come un cieco guidato da una mano divina, la tocco con gentilezza, su un lato, nel luogo esatto dove anche gli altri l’hanno fatto. A quel punto, una forza invisibile mi trascina dentro, senza che io capisca, magari senza che lo voglia. Io e l’oggetto ovale ci fondiamo in un’unica cosa. A cominciare dal punto di contatto. C’è lì (mi accorgo appena) una sporgenza più o meno conica. Sono al settimo cielo. Verrò inglobato da questa porta dorata che intanto si sta trasformando in qualcosa di bello e, allo stesso tempo, di terribile: adesso si ritira, si sta chiudendo dietro di me, perché per me solo era stata aperta. Perennemente. Abbiamo vinto. Ho vinto.

Sbatto per l’ultima volta i filamenti assiali della punta della mia coda. Poi la coda si stacca. Penetro con la testa verso la vita, sempre più verso la vita.


L’Autore

Arben Dedja (Tirana, 1964) ha lavorato in Albania come medico chirurgo. Emigrato in Italia nel 1999, ha conseguito un dottorato all’Università degli Studi di Padova, dove lavora. Pubblica articoli scientifici nell’ambito della ricerca di base e traslazionale(sulle valvole cardiache, la broncodisplasia polmonare, l’ingegneria tessutale, ecc.).

Nella sua vita alternativa ha pubblicato in Italia due libri di poesie e due di racconti. L’ultimo titolo è Trattato di Medicina in 19 racconti e ½ (Vague Edizioni, 2020), che raccoglie testi che hanno come tema la medicina.

In Albania ha pubblicato di più e ha vinto numerosi premi: quattro libri di poesie, sei di racconti (o presunti tali) e dieci di traduzioni. L’ultimo titolo tradotto dall’italiano è Vita Nuova di Dante.

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