Vagando in Germania non è difficile imbattersi nelle vestigia di quel passato recente che ancora oggi suppura come una ferita mai rimarginata: il nazismo. Certo ci sono stati la Guerra Fredda e la ricostruzione, la Berlino intossicata di Nick Cave e di altre anime perdute, l’Unione Europea, una cascata di anni e generazioni che hanno fatto di tutto per seppellire l’eredità ingombrante e non voluta di questa storia sbagliata.
Eppure tutto ciò che è accaduto è ancora lì, aleggia come nebbia fra la stamperia di Gutenberg e il Sacro Romano Impero, fra le tesi di Lutero inchiodate come Cristo sulla porta della Schlosskirche di Wittenberg e la genia di grandi pensatori che hanno fatto del tedesco un monumento vivente, Kant, gli Idealisti, Schopenhauer.
La Germania è tutto questo.
Allora come ricominciare, come provare a far tabula rasa di tutto quello che è stato per confezionare una nuova idea di Nazione, una nuova identità?
Se lo chiede Walter Abish in questo piccolo gioiello dimenticato – Wie Deutsch ist es – doveroso e intrepido recupero di Cantoni Editore: quanto è tedesco?

Quanto è tedesca la difficoltà a superare il proprio passato, quanto è tedesco l’atteggiamento dei protagonisti di questo libro, i fratelli Hargenau, che provano a dare corpo e volto alla nuova Germania fatta di benessere e d’America, di moda e di architettura?
Ulrich Hargenau fa lo scrittore e sta provando ad uscire da un rapporto ormai guasto con l’ex moglie Paula. Reduce da una scomoda testimonianza contro i suoi stessi amici in un processo per terrorismo, Ulrich è sopra ogni altra cosa uno spettatore del nuovo mondo che il fratello Helmut, archistar ante litteram, sta plasmando un mattone alla volta: la Germania stessa è la loro materia pronta per essere modellata, scolpita, deformata.

Ci sono rapporti da ridefinire, separazioni, amori incrociati e dissapori malcelati, c’è la presenza spettrale del vecchio filosofo Brumhold che si tiene a debita distanza da tutta questa contemporaneità eppure involontariamente ispira il nome di una nuova cittadina, Brumholdstein, capace di riassumere in sé tutti i valori di questo nuovo Paese fatto di equilibrio, dinamismo, efficienza.
Qualcosa però insiste per riemergere, sotto la superficie piana delle cose, erodendo dal basso la messinscena perfetta di una modernità esibita, la sua comodità, la sua menzogna: è il campo di concentramento che un tempo sorgeva dove ora ci sono villette e negozi alla moda, ristoranti.
Abish crea così un disagio sottile alternando i punti di vista dei protagonisti e delle comparse – il sindaco borioso che assume come imbianchino il suocero, l’ex domestico degli Hargenau che crea con gli stuzzicadenti un modellino in scala di un lager, la maestra e i suoi amanti, il libraio riservato, la fotografa indiscreta e disinibita – mentre ci permette di sbirciare dal buco della serratura le deformazioni di una società ancora in costruzione, le sue ossessioni, il suo fermentare incontrollato, il male puro che cerca in ogni modo di inquinare qualsiasi pretesa di innocenza.
Con una scrittura ricca e puntuale, che fa propria la lezione dei grandi maestri del postmoderno americano, Abish cattura lo spirito del suo tempo e si fa fine interprete di un luogo che incarna tutte le contraddizioni e le ferite della nostra modernità: la Germania dilaniata dal Novecento.
Accoppiamenti giudiziosi
A Norimberga un passato scomodo si condensa in un complesso assurdamente maestoso, impossibile da nascondere: il Reichsparteitagsgelände.
Questi spazi, progettati da Albert Speer negli Anni Trenta e mai terminati, erano destinati a ospitare i congressi del partito nazista: undici chilometri quadrati dedicati a parate, esibizioni, marce, raccolte di masse umane senza precedenti per celebrare la potenza di una nazione volutamente spaventosa ed eccessiva. Ogni dettaglio era studiato per stupire e soverchiare, per incarnare una certa visione di Germania e di cosa significasse essere tedeschi.
Alla caduta del regime ci si è chiesto cosa fare di questo monumento enorme in perenne decadenza, morto prima ancora di essere terminato: distruggerlo, convertirlo?

Nell’indecisione e nell’imbarazzo di fronte a quest’eredità atroce si riesce a leggere ancora oggi cosa significhi veramente essere tedeschi dopo il Novecento.
L’architettura – come ci insegnano i fratelli Hargenau – è in fondo proprio l’arte di creare un Paese: cambiare paesaggi per sempre, creare vedute e panorami, spazi in cui esistere.
Gli edifici del Reichsparteitagsgelände sono una modifica permanente di un paesaggio mentale che un bulldozer non potrebbe mai spianare – la Kongresshalle, lo Zeppelinfeld, la Große Straße solo esistendo nella loro forma embrionale e mai compiuta richiedono comunque una presa di posizione: vanno difese, vanno nascoste, vanno celebrate, vanno condannate a morte?
Albert Speer sosteneva curiosamente una teoria architettonica nota come Ruinenwert, secondo cui un edificio andrebbe progettato tenendo conto dell’aspetto che avrebbero avuto le sue rovine dopo il suo crollo. Ogni cosa conterrebbe così anche il germe della propria fine e naturale decadenza: lo stratificarsi della storia non richiederebbe dunque una rimozione ma sarebbe il naturale prolungamento di un’esistenza eterna e indelebile.
In questo modo, le rovine dell’area raduni diventano uno spettro di pietra immune da qualsiasi esorcismo, continuando a infettare ogni cartolina e ogni fotografia, ogni sogno di innocenza.
Che ambiscano all’eternità anche le opere di Helmut Hargenau è abbastanza evidente: pur macchiandosi della colpa di voler cancellare il passato finiscono per aggiungere solo un tassello alla storia del proprio paese, l’epoca del ripensamento e della negazione, concorrendo a comporre con la propria inevitabile caduta un panorama ancora più maestoso di rovine, macerie a perdita d’occhio fra esplosioni e demolizioni, terrorismo e sabotaggi, mentre un passato arrogante torna a rivendicare la propria posizione.
Come le rovine di Norimberga ogni edificio ci obbliga a riflettere su ciò che è stato, a tenerne conto, a cominciare da lì i passi per la costruzione di un qualsiasi tipo di futuro.
