Un libro pastoso, magmatico, un lento eppure inesorabile fluire che ricorda una colata lavica: stiamo parlando di Sotto il vulcano, capolavoro di Malcolm Lowry pubblicato per la prima volta nel 1947.
È un’opera difficile, impervia, questo romanzo diviso in dodici capitoli e stipato di riferimenti letterari, cabalistici, religiosi. Si offre al lettore maestoso e terribile nella sua densità soverchiante, nella sua lucentezza oscura che procede per paragrafi rigogliosi, descrizioni massimaliste capaci di far fiorire ed eruttare ogni cosa.
Siamo a Quauhnahuac, in Messico, dominati dai profili incombenti di due vulcani gemelli, il Popocatépetl e l’Iztaccíhuatl, durante i festeggiamenti per il Giorno dei Morti. È l’ultimo giorno di vita del Console Geoffrey Firmin, uno dei personaggi più complessi e struggenti della letteratura del Novecento: contraddittorio, alcolizzato, abbandonato, è un naufrago esistenziale che fa dell’ebbrezza uno stile di vita mentre prova a sopravvivere alla decadenza che lo circonda e permea integralmente. Alle sue spalle si muovono sfuocate le figure di sua moglie, Yvonne, e del fratello Hugh, con il loro rapporto mai chiarito, i non detti che restano sospesi in un continuo rincorrersi, fuggire, rimpiangere.
Il Console beve, vaga per una città fantasmagorica di bottiglie vuote e visioni sulfuree, fra la rovina del suo giardino paradisiaco ridotto a giungla e i suoi cocktail velenosi alla stricnina, mentre prova a saldare i frammenti del suo matrimonio devastato e si sforza di andare avanti nella sua catabasi moderna, di rimarginare ogni ferita, di trovare una risposta (o forse anche solo una domanda sensata) attraverso l’alcool e oltre l’alcool stesso.
L’alcool diviene così veleno e antidoto, guarisce e uccide mentre accompagna il Console nella sua lenta discesa verso l’abisso: è il balsamo con cui lenire il senso di smarrimento e di sradicamento, il lutto, l’avversione per tutta l’insensatezza che lo circonda. È però esso stesso causa d’insensatezza e di visioni oniriche, di ossessioni che si contendono il dominio del Console e della sua umanità prosciugata.

Firmin, come uno specchio deformante, ricalca alcune vicende biografiche del suo autore: le dipendenze, innanzi tutto, le relazioni difficili, la solitudine.
È però anche un personaggio universale, erede di Faust e di Dante e di tutti gli altri incauti che hanno osato avvicinarsi a ciò che sta oltre l’esperienza umana, divino o diabolico che sia: la sua caduta è quella di ogni uomo moderno che si trova senza scopo e senza senso dentro un mondo ostile e vede sistematicamente frustrate le sue ambizioni e i suoi sogni. È un titano alcolizzato, un romantico rimasto senza alcun assoluto in cui perdersi.
L’unico modo per continuare ad esistere e sognare è dunque l’ebbrezza, il senso di leggerezza e intossicazione che solo il mezcal e il whisky riescono a dare: da un bar all’altro, nella ripida allucinazione di un Messico asfissiante con i suoi cani, i suoi cavalli imbizzarriti, i suoi libri…
Accoppiamenti giudiziosi
Sotto il vulcano troverebbe una colonna sonora perfetta nell’opera di Piero Ciampi. Come Lowry sregolato, vagabondo, Ciampi più di ogni altro ha intriso le sue canzoni della malinconia e dell’inquietudine in cui macerava la sua stessa esistenza.
È difficile stabilire un confine fra vita vissuta e vita narrata quando entrambe sembrano così esagerate da diventare leggenda. Ciampi mandava affanculo tutti quando cantava Adius, si presentava sul palco ubriaco fradicio, scompariva improvvisamente e si materializzava in viaggi improbabili, beveva e faceva a botte, come il Console, con una vita maledetta pronta a trasmigrare la sua irrequietezza e il suo disincanto dall’opera alla biografia, dall’autofiction al delirio.

A congiungere la voce inconfondibile del cantautore livornese con la prosa furiosa di Lowry non è tanto una simmetria di tematiche o di luoghi, quanto piuttosto un sentimento di sottile abbandono, il richiamo irresistibile dell’autodistruzione che non parte dalla tedio o dal male di vivere, ma al contrario da un eccesso di vitalità e dal furore dell’avventura: anime inquiete, Malcolm e Pietro, attraversarono il mondo come un temporale e proprio come la pioggia conobbero rimpianti postumi, solo in tempi di siccità.
L’amore difficile che spacca il cuore, il fallimento, la rabbia e anche l’autoironia sono solo alcune delle suggestioni che accompagnano il loro cammino artistico e umano: una tragitto sofferto, impervio, una scalata sopra un vulcano attivo.
Piero l’Italiano, com’era noto fra i bhoémien di Parigi, non conobbe molta fortuna in vita, anzi fece di tutto per rovinare ogni possibilità di successo.
La sua opera musicale, come Sotto il vulcano, è un viaggio che trascura la meta, un delirio alcolico che apre le porte della percezione scardinando gusti e convenzioni, una lotta costante senza vincitori e senza vinti ma con tanti combattenti pesti che si trascinano erratici, ogni volta, verso un nuovo corpo a corpo: le sue parole, come quelle di Lowry, stranamente non ristagnano in presagi di morte ma trasudano vitalità.
Non a caso il capolavoro di Lowry si svolge in Messico durante il Día de los muertos: un contesto unico in cui vita e morte si toccano e festeggiano, gozzovigliando fra bevute colossali e rodei su tori inferociti. Sullo sfondo la foresta incombe, il passato e il presente si rincorrono e si perdonano a vicenda, i vulcani ribollono, pronti ad esplodere distruggendosi e devastando ogni cosa, fondendo il mondo intero in un’ultima canzone biascicata nel peggiore bar mai esistito.
Ma è il percorso che conta, la via crucis che dal Giardino dell’Eden porta all’inferno e ancora più giù nel buio vibrante che alberga in fondo a ogni anima inquieta. Non c’è scampo, non c’è speranza eppure c’è vita, ci sono ebbrezza e festa oscura e voglia di cancellare ogni cosa per ricominciare daccapo, per perdersi e disintegrarsi e forse cominciare a capire il senso profondo delle cose.

Sotto il vulcano
Malcolm Lowry – Feltrinelli, 2020
