“Benedetto è il frutto” di Rachel Ingalls

Il racconto non può permettersi il lusso di tergiversare. Per sua natura deve essere un congegno ben calibrato, in cui ogni parola trova la sua collocazione e dà il proprio indispensabile contributo al funzionamento corretto degli ingranaggi.

Come nella cassa aperta di un orologio meccanico, le storie di Rachel Ingalls si rivelano piccoli gioielli di pianificazione e follia: la precisione sottesa ad ogni vicenda narrata non fa che aumentare il fascino delle lacune e delle zone d’ombra che l’autrice coltiva con attenzione per regolare finemente ogni movimento della sua narrazione. Si creano così vicende piane, sostenute da una prosa molto naturale e misurata, che irretiscono il lettore per trascinarlo dentro l’assurdo.

Trappole o miracoli che siano, le parole di Rachel Ingalls non possono lasciare indifferenti.

Stanislao Lepri, Le Créateur des anges (1969)

Nella sua raccolta Benedetto è il frutto, pubblicata in Italia da Adelphi, l’irrazionale è qualcosa che s’intravede appena fra le pagine: c’è sempre una spiegazione normale, una noiosa via di fuga che non riusciamo però ad accettare come possibile: un frate sostiene di aspettare il figlio di un angelo, uno strana bambola-robot sconvolge con le sue prodezze erotiche la quotidianità di una coppia matura, una coppia finisce ospite di una singolare congrega di individui ambigui e poco sinceri.

Rachel Ingalls, americana di nascita ma inglese di adozione, ha scelto per le sue storie migliori un formato poco vendibile, quello della novella. Già grazie a Mrs. Caliban, arrivato qualche tempo fa in Italia grazie a Nottetempo, riusciamo a comprendere che il suo scarso successo commerciale non dipende certamente da una mancanza di qualità quanto piuttosto da una consuetudine di mercato. Le mezze misure non soddisfano il palato della maggioranza, ma certamente deliziano chi ha la pazienza e il coraggio necessari per sedersi davanti ai suoi libri esili e densi per cominciare a giocare.

Perché di gioco in fondo si tratta, di sperimentazione mai eccessiva, che guarda alle più ardite fioriture weird senza mai staccarsi completamente dalle atmosfere familiari, quasi ordinarie, tanto care a una certa narrativa americana: a trapelare, fra quadri di vita vissuta e dialoghi normalmente perfetti, è piuttosto un disagio sottile, un prurito. È davvero normale che tutto avvenga in questo modo?

Stanislao Lepri, Il pedagogo (1968)

La maniera di parlare dei personaggi, le loro interazioni, i loro silenzi, la loro ostinazione o la loro reticenza diventano presto un enigma, una via silenziosa da imboccare con cautela per strisciare nel surreale. Fra nascite miracolose e invasioni di rospi, il mondo di Rachel Ingalls ci stordisce e ammalia mentre ci regala, con una prosa elegante e senza sbavature, un nuovo sguardo sul nostro placido concetto di normalità.

L’assurdità dell’esistenza, l’insensatezza delle nostre convenzioni, l’orrore sono sempre fuori fuoco, distanti dal centro della narrazione ma stranamente onnipresenti. Ogni cosa sembra al suo posto, eppure niente è normale, niente segue il percorso prestabilito. Niente accelera pur nella forma ristretta del racconto. Al contrario, le sue storie bizzarre, quietamente sinistre, non hanno mai fretta: costruiscono scorci verosimili sulla nostra vita di coppia, su una normalità assonnata, sulle cose e sulle chiacchiere che costellano le nostre vite e poi fanno germogliare l’irrazionale e lo lasciano libero di infrangere, espandendosi, ogni pretesa di razionalità.


Accoppiamenti giudiziosi

Rachel Ingalls dipinge con le parole e lo fa con il languore immaginifico di Stanislao Lepri: “mescola umorismo e terrore in eguale misura, rievocando il grottesco di Hieronymus Bosch e la noia esistenziale di Giorgio de Chirico, insieme allo sfarzo di un infantile pomeriggio estivo o di un ballo mondano”, nelle parole scritte da Hunter Braithwaite per la bella retrospettiva sull’artista romano presso la Galleria Tommaso Calabro di Milano.

Stanislao Lepri, Lepidoptères pirates (1972)

Lepri come Ingalls non fu mai protagonista, in vita: viene liquidato dalla mostra Twentieth-century Italian Art, allestita al MoMA di New York nel 1949, come “l’unico discepolo diretto di Leonor Fini”, sua compagna di vita e di arte. Aristocratico per nascita, diplomatico per professione, almeno inizialmente, Lepri rimane ancora oggi un grande sconosciuto, un enigma nel variopinto fondale del fantastico italiano.

Eppure come Ingalls non mancò di talento e d’inventiva: dal suo pennello uscirono incubi e invenzioni capaci d’ibridare il quotidiano con il mondo rarefatto dei sogni. Farfalle predatrici, angeli, animali totemici e animali nascosti in agguato, elementi che concorrono a deformare il tedio e la ripetitività della nostra vita per metterne alla luce gli aspetti più perturbanti e grotteschi.

Forse è proprio scavando sotto la superficie delle cose che Ingalls e Lepri arrivano a trovare un punto di contatto: toccandosi appena attraverso il medium della carta stampata e quello della pittura, le loro narrazioni parallele definiscono un disagio sottile, nascosto, capace di insinuarsi nella testa dei lettori e degli osservatori come una lama molto tagliente.

Stanislao Lepri, L’Oeil dans le jardin (1968)

Con il dipinto L’Oeil dans le jardin, Lepri trasforma la quieta panoramica di un giardino nello scenario misterioso di una caccia metafisica: fra le foglie s’intravede un occhio animale, un pericolo sconosciuto o forse semplicemente il messaggero di un mondo diverso dal nostro che riesce a forzare le maglie della logica umana per portarci un nuovo punto di vista, come in una storia firmata da Rachel Ingalls.

Mano a mano che si osserva il dipinto, come perdendosi dentro un racconto, ogni cosa inizia a liquefarsi nell’assurdo: la danza umana delle lucertole in primo piano, l’incoerenza del fondale illuminato, la sagoma impossibile da nascondere del felino in agguato che tuttavia ci sfugge, come un dettaglio stonato in un sogno, si sottrae alla piena vista per regalarci un po’ di mistero, obbligarci a pensare.

Le storie di Rachel Ingalls sono così: ci si chiede sempre cosa ci voglia raccontare, quale sia il suo obiettivo, l’oggetto del suo racconto. Si cerca un senso pur sapendo, come nei sogni, che la vera essenza è altrove, inconoscibile, sepolta dietro le palpebre di chi dorme.


Bonus

  • La preziosa mostra organizzata dalla Galleria Tommaso Calabro sul lavoro di Stanislao Lepri
  • Un approfondimento sull’opera di Lepri scritto da Hunter Braithwaite per Independent
  • L’intervista di Dan Sheehan a Rachel Ingalls per Literary Hub


Benedetto è il frutto

Rachel Ingalls – Adelphi, 2025


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