“L’anno del toro” di Chiara Checchini

«Professor Smith, mi perdoni lo scarso preavviso…»

Era la prima volta che il rettore mi convocava d’urgenza nel suo ufficio, temevo il peggio.

«…ma viste le circostanze, ho voluto affrettare i tempi…»

Tamburellai le dita sul bracciolo della poltrona, aspettando che Sir Charles Duncan Parker proseguisse.

«Sono sollevato di sentire che le sue analisi non mostrano anomalie, tuttavia non nego di essere preoccupato per la sua salute. Deduco si debba trattare di un… disturbo di natura psicologica, dovuto magari a stanchezza da routine – dopo sedici anni qui al Wayne è più che comprensibile…»

Tra le carte ammonticchiate sul tavolo notai una busta sigillata con uno stemma noto, una testa bovina imprigionata in una medaglietta, e mi mancò il respiro. Insieme a un insistente formicolio ai polpastrelli mi assalì un’ondata di nausea.

«…come sa siamo gemellati con l’Abbey College di New Delhi, storico e prestigioso Istituto. Mi sono già confrontato con il mio omologo, che si è detto più che lieto di accoglierla per uno scambio, per l’anno a venire. Ci pensi, potrebbe cambiare aria e allo stesso tempo dare lustro al suo curriculum.»

La vista mi si offuscò.

«Io in India?» feci in tempo a mormorare prima di accasciarmi a terra.

“Festival, festival!” grida la folla sull’autobus gremito.

“No, io…”

Gli altri gridano più forte “Festival, festival!” e mi guardano con ostilità.

Temo per me stesso e quindi non dico nulla. Il bus ci lascia in un’arena, nell’eccitazione generale.

“Nome!” intima un tizio seduto a un tavolo che controlla una lista.

Glielo indico con il dito.

“L’uomo bianco”, mormora la folla.

Mi rendo conto che tutti intorno a me hanno la pelle scura.

Mi segnano un numero sul braccio.

I concorrenti si lanciano nella mischia, devono domare un toro bianco dalle corna blu, che scalcia e si dimena.

Gli uomini si avvicendano, gli si accalcano addosso, si appendono sulla sua gobba cercando di costringerlo a sedersi nella polvere, lui sembra cedere ma poi si rimette in piedi, stende le zampe e scalcia. Scalpita. Li fa ruzzolare, lontano.

Io, come ipnotizzato, guardo l’animale negli occhi.

Ho la netta sensazione di essere già stato qui.

La folla si apre per farmi passare, un uomo possente con gli occhi lividi mi si para davanti, la mandibola contratta, i pugni chiusi.

“Lui è il campione in carica”, mi spiega un uomo elegante in abiti tradizionali.

Tocca a me. Mi avvicino piano. L’animale bruca indifferente l’erba senza fare caso a me. Gli poso la mano sul fianco ma quando gli afferro la gobba sbuffa e si ritrae. Gira il collo infastidito, non ha più nulla di mansueto. Mi punta. Prende la rincorsa e –

«Professor Smith! Ha ripreso i sensi, si metta seduto. Così…»

Tornai a casa in taxi, passando per quartieri di Newport di cui non avevo alcuna memoria. Finii per assopirmi, come mi capitava troppo spesso, e mi risvegliai per una brusca frenata dell’autista proprio davanti a un grosso murales: un toro agghindato a festa sembrava voler uscire dalla parete di un edificio in mattoni. Gridai e iniziai a battere i pugni contro il finestrino.

L’inizio di tutto, mi chiedono di rintracciare, qui. Insistono che è importante, mi chiedono di fare uno sforzo. E io li accontento, non ho molto da fare, d’altronde.

Forse è stato il giorno del mio intervento al convegno annuale di Londra, città intrinsecamente perturbante e sempre foriera di disagi. Il giorno dell’incidente, proprio durante la mia presentazione. Non era il primo episodio ma a quel punto fu evidente a tutto il mondo accademico che il Professor Oliver Smith aveva un problema.

Nauseato dalle paternalistiche e compassionevoli pacche sulle spalle, fuggii a metà convegno e mi misi a passeggiare per Hyde Park a piedi nudi.

Stesi la giacca sul prato, mangiai un sandwich e lanciai le croste di pane alle oche. Dopo aver letto il giornale sdraiato al sole mi stavo quasi convincendo che in fondo la capitale non fosse così male quando un toro bianco dalle strane corna dipinte balzò fuori dal nulla e iniziò a galoppare verso di me. Per sfuggire all’attacco della bestia dovetti arrampicarmi su un albero e il poliziotto di ronda faticò a convincermi che il pericolo era scampato e che potevo scendere.

Quando finalmente rimisi piede a terra non mi piacque affatto il condiscendente coro di occhiate con cui mi trafissero l’uomo in divisa e i passanti.

Però forse era accaduto qualcosa anche prima.

Sì, quella volta che la massaggiatrice, ho rimosso il suo nome, era venuta a casa per il trattamento. Aveva le braccia muscolose e terribilmente sexy e il seno che di tanto in tanto fregava sulla mia schiena quando si chinava su di me. Fu quasi inevitabile, bastò uno sguardò e lei si spogliò e si accomodò sopra di me. Frances mi pare si chiamasse.

Mi raggelai quando notai sulla sua spalla il tatuaggio di un toro dalle corna ricurve, non credo se ne sia accorta. In ogni caso non tornò più.

Fu così che messo al muro, all’inizio di luglio presi l’aereo e volai verso l’India, la patria del tè, del curry e del legno di sandalo – tentavo di galvanizzarmi così, insistendo sul fascino dell’esotismo. In realtà mi sentivo come un condannato a morte, come l’ignaro protagonista di un’epopea, l’eroe che senza saperlo va incontro al suo destino di morte, già scritto da sempre e per sempre.

Il primo impatto con Delhi fu sanguinoso, non solo in senso metaforico: disorientato dai rumori incessanti, stordito dalla folla dirompente, insidiosa come un mulinello nell’ansa, frastornato dal caldo asfissiante inciampai e mi ferii a un piede. La visita all’ospedale fu talmente scioccante che non volli più tornarci.

Trascorsi i primi giorni chiuso nella mia stanza, nell’ala del collegio riservata ai visiting professor, in preda a una preoccupante indolenza. Annientato dall’afa, passavo ore disteso sul pavimento fresco a osservare gli sciami di insetti che picchiettavano contro le zanzariere incrostate di polvere, ignorando le ferite che suppuravano. Nel dormiveglia, ero impigliato in un mondo –

Cammino in un tunnel, una galleria scavata nella pietra che trasuda umidità.

Sono coperto di sudore.

Torce, infilate in anelli di ferro fissati alle pareti, illuminano il passaggio.

Devo fare attenzione a dove metto i piedi, schivare grosse pietre appuntite e pozzanghere piene zeppe di un liquido purulento. Il fumo denso riempie l’aria.

Grossi insetti precipitano dall’alto, tentano di attaccarmi.

Gigantesche zanzare mi si parano davanti, scarafaggi mi passano sopra i piedi nudi e una enorme falena svolazza sopra di me.

Grappoli di ragni stanno in agguato appesi alle pareti.

D’un tratto si apre uno slargo e c’è un altare, sovrastato da una civetta che pare una sentinella.

Un volto spunta da un bassorilievo, è ipnotico: è un bue ma ricorda un uomo…

Accolsi l’inizio del mio seminario con sollievo. Arrivai zoppicando nell’aula gremita in cui constatai con angoscia che l’unico ventilatore appeso al soffitto si limitava a spostare aria calda. Sudavo copiosamente, spesso perdendo il filo, in preda a momentanee amnesie. Mentre scrivevo formule alla lavagna mi fermavo, esitante e solo i suggerimenti degli studenti mi consentivano di proseguire. Un giorno mi addormentai a lezione, come già mi era accaduto.

Sono di nuovo nel tunnel.

Mi sento al sicuro, qui nell’ombra tra gli insetti che ormai sento amici. Grossi ragni pelosi si calano sui fili al mio passaggio, quasi a volermi salutare. Procedo con passo più sicuro nonostante l’impaccio del piede ferito e fasciato.

Ritorno all’altare. Sulla mensola di pietra accanto alle offerte votive, i fiori arancio, le monete e le piccole lanterne di terracotta mi colpisce la foto di due bambine, gemelle siamesi, unite all’altezza della fronte, ciascuna con una lunga treccia nera che ricade sulle spalle.

All’improvviso sento un’esplosione, non lo vedo ma so che è un vulcano che sta eruttando e la lava inizia a scorrere sul fondo del tunnel. Io inizio a correre correre correre, procedo a tentoni al buio, pestando insetti e trattenendo il fiato e il ribrezzo finché non cado su un ostacolo che ostruisce la galleria.

Le torce lungo le pareti si accendono tutte insieme e io lo vedo.

Il toro bianco bardato a festa, con una ghirlanda che gli ricade vezzosa sopra gli occhi e le corna colorate di blu per l’occasione. Sembra un re sul trono, regale, impassibile, maestoso.

Mi svegliò Singh, il mio assistente. La macchia viola del suo turbante entrò nel mio campo visivo insieme al bianco perfetto dei suoi denti, che spiccavano sotto i baffi neri. Mi porse il braccio e mi scortò fino alla mia stanza.

«Prof, sembra grave», disse Singh vedendomi zoppicare. Il piede mi doleva, ma l’idea di tornare in ospedale mi faceva accapponare la pelle.

Stordito dalle vampate di calore barcollavo. Presi più paracetamolo di quello indicato e mi misi a letto.

Eccomi di nuovo all’altare, al mio toro in pietra.

Con un fiammifero accendo lo stoppino di una lanterna a olio e butto in un angolo i fiori appassiti.

Sento muggire e ricordo tutto, la lava, il pericolo. Mi ritrovo davanti il grosso bovino, tento di spingerlo via ma in quel momento sopraggiunge un uomo con un nastro viola avvoltolato in testa che mi spiega con condiscendenza che mucche e buoi non vanno toccati, per alcun motivo.

«La lava! Ci raggiungerà, moriremo tutti!» grido.

L’uomo mi sorride, pacificato.

Io non resisto, prendo a calci la mucca, che resta immobile. L’uomo cerca di fermarmi ma io mi aggrappo alla gobba, la scuoto –

Tot toc toc toc. Il rumore mi faceva rimbombare la testa. Mi trascinai fino alla porta e mi trovai davanti due uomini.

«Prof, questo è il dottor Devi. Il rettore insiste per farla visitare, teme che lei abbia preso la malaria», disse Singh.

Lo sguardo del medico cadde sul mio piede nudo, attraversato da una striscia di pus.

Mi hanno chiesto di ricordare…

Rincasavo nel mio appartamento di Newport tenendo il cartone di una pizza in una mano e un plico di lettere e volantini nell’altra. L’ascensore era rotto, e io mi trascinavo sulle scale ansimando e fermandomi di tanto in tanto per riprendere fiato.

Un anziano dalla testa argentata che abitava al terzo o al quarto piano mi superò, toccandosi il cappello. Ero profondamente irritato, io che vado a correre tutte le mattine, lì a soffiare sulle scale e a farmi superare da un uomo con il doppio dei miei anni! Ma che mi stava succedendo?

Mentre ero fermo, aggrappato al corrimano, ad aspettare che il cuore smettesse di palpitare, mi si avvicinò un uomo barbuto, con la testa fasciata da un turbante viola, che mi porse una lettera.

«Prof, le è caduta questa. Sembra importante.»

La presi e riuscii a mala pena a ringraziare. Sull’angolo della busta scorsi uno stemma che raffigurava la testa di un toro: avvampai e mi prese una vertigine.

Realizzai di non avere idea di chi fosse l’uomo che sulle scale mi aveva parlato in modo così confidenziale, ma non ci diedi troppa importanza, non sono mai stato fisionomista.

Non ricordo quanto tempo impiegai a raggiungere il mio appartamento ma quando aprii il cartone la pizza era gelata e ci sono poche cose che detesto di più al mondo della mozzarella solida e gommosa.

Fissai a lungo il toro negli occhi prima di decidermi a leggere la lettera e una volta finito la misi insieme alle altre, sullo scaffale dell’ingresso.

Venni immediatamente ricoverato nel vicino ospedale per un’infezione diffusa. Non facevo che dormire, stordito dai farmaci.

E di nuovo eccomi nell’arena. Ora siamo io e il toro della galleria, è un duello. Donne in sari variopinti adornano di ghirlande le corna del toro, poi vengono da me, mi mettono al collo collane di gelsomino. Intanto la lava scivola giù dalle pendici del vulcano, ma non sembra importare a nessuno. Ora tocca a me, gli salto in groppa, mi stringo a quella strana gobba che gli spunta nel mezzo della schiena, ma lui dà colpi d’anca vuole disarcionarmi e io mi abbasso, afferro le sue corna blu e le mie mani diventano blu. Mollo la presa per fissarmi i palmi e con uno strattone mi atterra, carica e mi infilza.

Dischiusi le palpebre.

«Professor Smith! Finalmente» esultò l’uomo seduto al mio capezzale facendo oscillare il turbante.

Un mugugno di dolore mi affiorò alle labbra.

«Ma cosa…?» mormorai scorgendo le fasciature.

«È scappato dall’ospedale, si ricorda? C’era una processione… Un toro l’ha puntata…»

«Il toro bianco!»

«…ha fratture multiple e il polmone è stato perforato da una cornata» spiegò Singh, che riconobbi in quel momento. Si rigirava tra le mani una lettera con stampato lo stemma di una testa bovina.

Sgranai gli occhi.

Mi porse la busta e io la presi con mani tremanti, macchiando di blu la carta.

«Perché non ci ha detto nulla?» chiese rabbuiandosi.

«Di che cosa parla?»

«Della diagnosi del Saint Luke» disse incrociando le braccia.

Mi dicono che devo cercare di ricordare…

Ma a questo punto, che senso può avere?


L’Autrice

Chiara Checchini nasce nel 1980 a Milano, dove attualmente vive. Detesta le bio, i cliché e i cibi pronti tanto quanto adora le matinée al cinema, le pagine bianche e l’odore della pioggia nel bosco.

Negli ultimi tempi frequenta corsi di scrittura creativa per meglio comprendere i meccanismi che governano la narrazione.

Nel marzo dello scorso anno sulla rivista Risme è apparso un suo racconto.

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