Ogni famiglia infelice è infelice a modo suo, si usa dire rubando le parole al buon vecchio Lev Tolstoj. Antico adagio o tautologia poco importa, l’infelicità molteplice delle famiglie è ormai un assioma, una bella giustificazione precaria per la moltitudine di saghe familiari che arrivano ogni anno sugli scaffali delle nostre librerie intasandole di padri assenti e madri svampite, figli ubriachi, figli drogati, figli degeneri e generi degeneri (che è peggio): ogni volta il solito carnevale di macerie e pianti a dirotto che farebbero entusiasmare Gabriele Muccino.
Le saghe familiari mi tediano, credo sia evidente, ho un problema, mi annoiano i micro drammi, i ritratti edificanti di nonnine e mammine amorevoli, mi viene la malavoglia, con le saghe, con gli emuli svogliati dei Malavoglia, mi viene il voltastomaco: eppure c’è del buono in alcune di queste storie, c’è talvolta dell’originalità ben celata sotto strati di lessici famigliari, c’è in alcuni casi una scrittura di qualità che scorre anche sotto le vicende apparentemente più ordinarie.
Per questo – e per il clamore che ha suscitato – mi sono costretto a leggere Il giorno dell’ape di Paul Murray, pubblicato in Italia da Einaudi con la traduzione di Tommaso Pincio per l’iconica collana Stile Libero.
E a lettura terminata posso dirmi soddisfatto di essere uscito dal perimetro comodo delle mie abitudini.
La trama ruota attorno alla famiglia Barnes: la progressiva decadenza della concessionaria di famiglia, l’infelicità di Dickie, l’insoddisfazione di sua moglie Imelda, la voglia di fuga dei loro figli Cass e PJ.
L’autore sceglie di concentrarsi su un personaggio per volta, prendendone la voce e lo stile per raccontare la loro versione dei fatti, il loro pezzo di storia: Cass ci parlerà del rapporto ambiguo che la lega alla sua migliore amica, PJ di bullismo e videogiochi, Imelda della sua famiglia d’origine e di un amore antico ma mai passato. Ogni personaggio ha il suo modo di parlare, il suo rapporto con la grammatica e i tempi verbali, ognuno ha qualcosa da raccontare alla carta che raccoglie le loro storie e le assembla come un mosaico.
Ma in cosa si distingue questo pur pregevole lavoro letterario da tutti quelli che l’hanno preceduto?
Innanzi tutto per la collocazione temporale: Il giorno dell’ape registra alla perfezione il momento storico in cui viviamo. Si distanzia tanto dalle trame tradizionali, quelle eroiche di trionfo che partono dal basso e ascendono sino alle stelle, quanto dalle storie à-la-Scorsese, in cui un protagonista ambizioso compie la propria scalata, titanicamente, faticosamente si eleva e infine precipita, tornando nei pressi del punto di partenza.
Le trame di questo tipo riflettevano un tipo di società e di aspettative che ormai possiamo definitivamente considerare superate: sono frutto di un modello desueto, di un’allucinazione collettiva.
Non esiste eroismo, non esiste crescita, sembra dirci Murray: la sua è la prosa della stagnazione, della crisi. Economicamente e socialmente i suoi personaggi si trovano infatti in un punto imprecisato sulla discesa vertiginosa verso la fine e non hanno modo di fermare la tragedia collettiva che pare annunciata da molti presagi concordanti: il fallimento individuale è solo un frammento della tragedia comune che siamo tutti chiamati a vivere ma non ci impedisce comunque di creare bellezza e di cercare bellezza nelle cose che restano, la famiglia, gli affetti, uno scopo da ricostruire.
La lotta dei suoi personaggi è resistenza, reinvenzione: davanti al cambiamento climatico, al vorticare furioso del tempo, i Barnes resistono e insistono, testardamente, provano a costruire un futuro con i rifiuti del passato, nello spazio bianco e vuoto che ci attende in agguato dopo l’apocalisse.
Ho letto volentieri questo libro e piacevolmente ne sono diventato preda, però, anche per la giusta dose di emozioni che riesce ad allacciare al canovaccio della sua trama: ci sono parentesi che rasentano l’horror, squarci di romanzo di formazione, c’è un campionario umano che non smette mai di essere realistico nella sua incoerenza, nel suo vagabondare senza scopo, nelle sue fragilità tenute inutilmente nascoste.
Accoppiamenti giudiziosi
Un mondo sul punto di esplodere, cambiamento climatico, siccità, tracollo economico. Questo sarebbe lo sfondo movimentato del ritratto di famiglia dei Barnes: la loro esistenza nelle parole di Murray è ritmata e fluida, gli eventi che li riguardano si susseguono in una successione incalzante che non lascia al lettore il tempo per annoiarsi. Il tempo si ripiega su se stesso, i ricordi lasciano trapelare a volte indizi utili per mappare – fra lacune e illazioni – una foto di gruppo senza retorica e senza sbavature.
Come nel celebre dipinto La famiglia di Carlo IV di Francisco Goya, i personaggi sono raffigurato senza filtri, con l’acume spietato dei grandi artisti quando si trovano a lavorare con la viva umanità dei propri soggetti.

Goya si distacca dalla tradizione dei dipinti celebrativi e, pur trovandosi di fronte ai membri della Famiglia Reale di Spagna, non smette mai di scavare con gli occhi e con la mente sotto il pesante carapace sociale che li nasconde e protegge, una crosta fatta di medaglie e parrucche, titoli e onori.
Potremmo vedere così anche i Barnes: Dickie fragile e insicuro come il sovrano, che cerca disperatamente di stare al centro nonostante ambisca segretamente allo sfondo, all’oblio, schiacciato dalla presenza totalizzante di Imelda: bellissima, incredibile, eppure animalesca nella sua ignoranza, regina consorte di un regno che non l’ha mai accettata veramente. Accanto a loro i figli, in disparte: Cass mentre cerca di evadere, di proiettarsi verso Dublino, verso l’università, la vita vera che sta fuori dalla soffocante quotidianità del suo paesino, PJ abbandonato, costretto a crescere, costretto ad accettare la violenza del mondo come chiave per comprenderne i meccanismi nascosti, segreti, la vita dei grandi.
Murray come Goya rivela le brutture mascherate dei suoi personaggi, li mostra per come sono veramente.
La prosa è limpida, precisa, procede verso la fine forte di una scrittura che sa essere ironica anche in un in un panorama abbastanza tragico: Murray non ha paura di cambiare registro con vertiginose inversioni di rotta e riesce a stritolare il lettore nella morsa di un finale eccellente dove nulla è scontato e logico, nulla in piena luce.
