Venedikt Erofeev – vero outsider della letteratura russa – ha scelto di incarnare con la propria vita e con le proprie opere l’ideale dell’irregolare: disoccupato in un paese con l’ossessione dell’operosità, ubriaco, inutile nel modo scanzonato e poetico con cui solo i veri artisti sanno privarsi di ogni obiettivo.
La sua opera più famosa ha avuto in Italia diversi titoli e diverse traduzioni: Mosca sulla Vodka, Mosca-Petuškì, il rimestio fra edizioni e versioni annotate non fa che rimarcare l’unicità di questo romanzo anomalo che parla di libertà e di autodistruzione.
Mosca-Petuškì, due ore e mezzo di treno. Da ubriachi sembrano molte di più, naturalmente, l’alcool può ottenebrare i sensi o ampliarli, forzare le sbarre della gabbia in cui siamo tutti costretti. Può diventare la lente distorta attraverso cui anche lo stolido grigiore della quotidianità moscovita assume i colori e le forme bizzarre di una grandiosa opera di viaggio – circolare e colta, intossicata di vodka e citazioni rutilanti, visionaria.

Il protagonista di questo poema ferroviario è un alter ego dell’autore, che s’imbarca in un’avventura tanto ordinaria quanto assurda per andare a trovare la sua bella dalla lunga treccia e un figlioletto malato a Petuškì: sullo sfondo di una Russia scandita dai nomi delle stazioni che si susseguono attraverso i finestrini, i personaggi ritratti dalla penna selvatica di Erofeev brindano e s’intossicano sulla ferrovia più metafisica del mondo. Le loro storie fanno da cuscino e da trampolino per l’immaginazione selvaggia del narratore, che ci parla di cocktail velenosi e di visioni bibliche, di lavoro e di evasione, di redenzione e nichilismo.
Nato come samizdat e circolato grazie a copie carbone e passaggi sottobanco, Mosca-Petuškì è un cult clandestino che ancora oggi riesce a mettere in scena un teatro tragicomico, al contempo ferocemente ridicolo e struggente, elevando la sbornia ad atto di ribellione e disfacendo l’autofiction in vera leggenda.
Accoppiamenti giudiziosi
Quella di Erofeev è una sbronza esistenziale, talmente spericolata e allucinante da portarlo altrove: il suo protagonista è “drunk on the Moon” come Tom Waits, è a un passo dal paradiso con i cori degli angeli nelle orecchie e le storie degli altri passeggeri che gli si spalancano nello stomaco.
Bere è l’unico modo per sopravvivere nel rigore sovietico, o forse è una forma d’arte a sé stante, l’arte della fuga capace di trasportare vagabondi e derelitti nel cuore di sabato notte – l’America è così distante eppure così vicina, con i suoi sogni patinati e la sua diversità, la sua perversione.

Tom Waits ha smesso di bere da molti anni ma ha conosciuto l’alcool così da vicino da poterne parlare con la stessa sicurezza di Erofeev: ha bevuto con Bukowski, si è fatto crescere una voce inconfondibile, “come se fosse stata immersa in un tino di whisky, poi appesa in un affumicatoio per qualche mese e infine portata fuori e investita con una macchina”, come ebbe a dire Daniel Durchholz.
All’alcool ha dedicato canzoni indimenticabili che attraversano ogni sfumatura emotiva: dal delirio di Jockey Full of Bourbon alla sbronza nostalgica di I wish I was in New Orleans, l’ebbrezza di Waits prende sottobraccio quella di Erofeev e la porta a passeggio lungo la ferrovia.
Il loro viaggio non è quasi mai reale: ci sono belle ragazze attillate e personaggi squinternati, ci sono creature angeliche o demoniache acquattate dietro l’angolo. C’è un sottofondo struggente che attraversa delusioni d’amore e squarci di vita e li unisce in un mirabile abbraccio a tutto il sottobosco di creature della notte che come loro scelgono di vagare, di perdersi, di raggiungere l’illuminazione smarrendo il senno.

C’è soprattutto la strada, nelle loro voci così diverse eppure così affini, il senso di libertà che coglie ogni viaggiatore, anche i più sobri, nel momento in cui si stacca dal punto di partenza e comincia a galleggiare, a lasciarsi portare alla deriva: lontano da Mosca, dall’idea di Mosca e dalle regole di Mosca che stringono addosso come vestiti scomodi, pizzicano, lontano dal lavoro e dalle sue logiche rigorose.
Petuškì è un miraggio che si allontana ad ogni fermata: non si trova sulle cartine, non si può mai raggiungere veramente. È altrove, sulla luna, oltre la vita terrena che continua a ripetersi, ciclica, spietata, come una lunga traversata senza senso in cui ogni colpa si paga in sorsi di vodka.
Soundtrack by Tom Waits
- Drunk on the Moon
- I Wish I Was in New Orleans (In the Ninth Ward)
- Tom Traubert’s Blues (Four Sheets to the Wind in Copenhagen)
- Bad Liver And A Broken Heart (In Lowell)
- The Piano Has Been Drinking (Not Me) (An Evening with Pete King)
- Jockey Full of Bourbon
