“Persona” di Marco Magurno

Non è un romanzo, non è un saggio. Non è un poema epico né un canto religioso, non è un testo misterico, una formula magica, una poesia. Non è nulla eppure è tutto questo.

Stiamo parlando di Persona (Alessandro Polidoro Editore, 2024), romanzo transmediale di Marco Magurno, che già ci aveva illuminati e disorientati con il suo stile inconfondibile impresso nel memorabile Diorama edito da il Saggiatore.

Persona è uguale e diverso, è un nuovo tassello in un mosaico di analisi e sperimentazione che pone Magurno fra gli autori più originali e liberi della sua generazione.

Non aspettatevi quieti sonetti né sospiri arcadici fra le sue pagine che sembrano poesia ma sono tutt’altro, non cercate nelle sue parole il rassicurante abbraccio di un dramma tascabile o di una passione romanza. Non troverete niente.

Robert Ryman, Background Music (1962)

Persona è un oggetto narrativo anomalo e alieno: usa le immagini per completare le parole e viceversa. Narra una storia rarefatta che inebria il lettore, lo confonde, lo illude. Parla di un uomo che perde la memoria, anzi dell’apocalisse (forse le due cose coincidono?). Parla di vita e di morte, di rigenerazione, del potere salvifico e distruttivo della parola che infesta l’essere umano e plasma il mondo, che sopravvive al suo creatore, che svanisce senza lasciare impronte come un profumo, un’idea mai espressa.

Il frammento prescelto dall’autore per comporre questo romanzo atipico è simbolo di una scarna perfezione monoatomoca, ultima essenza purissima che sta al centro del concetto stesso di opera: di frammenti si compongono questi capitoli sperimentali ed estremi, come classici perduti e ritrovati nell’eco di mille manoscritti medioevali, di atomi perfetti si nutre quest’opera carnivora e bellissima, di momenti che – disposti in una teoria disordinata, in una costellazione – arrivano a tracciare un percorso lacunoso, spezzato, eppure stranamente coerente nella sua audacia narrativa.

Robert Ryman, Capitol (1972)

Silenzio e Parola

Mistico e al contempo tremendamente terreno, Persona alterna con sapienza immagini e parole, combinandoli in una sintesi che non può fare a meno di nessuna delle sue componenti per veicolare con potenza e immediatezza un suo messaggio, qualunque esso sia.

Sì parla di vita e di morte, questo è certo, ma si parla anche e soprattutto della memoria e della sua conservazione. Il percorso verso questi temi, verso questa consapevolezza, è mediato dalle tappe di una via crucis invisibile, da parole e silenzi che si alternano come in musica, di meditazioni che ora cercano la perfezione del verbo ora quella della sua mancanza assoluta.

Quello di Magurno è sicuramente un lavoro di privazione, in un certo senso di ascesi: lungo la strada rigogliosa della narrativa e dello sproloquio sceglie di scalare la perfezione attraverso la rimozione del non necessario. In ogni parola continua a prediligere, alla facilità del sentimentalismo e della spiegazione didascalica, la fatica purificatrice che accomuna lo scrittore allo scultore quando si affanna con lo scalpello per liberare la forma che ha in mente dall’involucro incomodo della pietra.

Robert Ryman, Untitled (1965)

Accoppiamenti giudiziosi

Come descrivere a parole l’assenza di parole? La loro fine, lo sgretolarsi della coscienza umana che porta tanto alla morte quanto a una forma astratta di comunione con tutto ciò che ci circonda, silente e immemore, la quiete degli oggetti.

È come raffigurare l’assenza: provare a creare il vuoto, la mancanza.

L’artista americano Robert Ryman l’ha fatto per trent’anni: un lavoro costante di scavo e ricerca, di sperimentazione con materiali e formati diversi per provare a dare un corpo e una forma all’assenza. L’ha fatto affezionandosi a una forma, il quadrato, e a un colore solo, il bianco.

Robert Ryman, Untitled (1962)

Come in Magurno, il bianco della carta è luce piena e chiarezza, è onniscienza ma anche abbaglio. È la perfezione che riassume in sé tutti i colori, una presenza assoluta e perfetta che lascia spazio solo per l’introspezione e per la fuga.

È uno schermo acceso, simbolo per eccellenza dell’immagine nel nostro tempo telefonico e caotico, ma è anche cancellatura, perdita di memoria e di identità.

È silenzio, prima di tutto, contrapposto al rumore assordante del nero che costituisce il suo naturale contrasto e completamento per le illustrazioni sfumate, per la definizione delle singole parole, delle frasi, della scrittura come atto di rivelazione e profezia.

Ryman come Magurno rende manifesto il mondo immateriale, quello delle idee astratte e quello inconoscibile che precede la nostra nascita o segue la nostra morte. La sua raffigurazione statuaria vuole essere esattamente ciò che è: una distesa bianca, un conflitto fra tela e pittura che si risolve nella brusca esclusione di tutto ciò che non è pittura.

Robert Ryman, Untitled (2011)

Non c’è niente e questo è il dramma ma anche la grande consolazione di fronte alle sue tele monocromatiche: sono un ambiente in cui l’uomo, libero da tutto ciò che ha creato, si trova ad affrontare sé stesso.

Nudo e disarmato, come in Persona, l’osservatore può arenarsi in una pagina per ore, lottare contro una memoria malefica e persistente ma anche elevarsi nella contemplazione di una perfezione che sfuma e si coagula attorno a pochi concetti, poche parole esatte che lottano eroicamente e si sacrificano per lasciare spazio al silenzio.

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