Trent’anni e non sentirli: anzi sentirne pochissimi, una manciata, regredendo allo stadio impubere, “culculizzato” nelle parole dell’autore, in una grottesca parodia dell’infanzia che si spalanca su imprese assurde e atroci risate a mezza bocca. È questo Ferdydurke, essenzialmente, il primo romanzo di Witold Gombrowicz pubblicato originariamente nel 1937 e riportato nelle librerie italiane da il Saggiatore, al pari di molti altri lavori del grande autore polacco.
La storia narrata da Gombrowicz parte da sé, un trentenne quasi-scrittore che senza averne il controllo viene ridotto allo stadio di bambino dal professor Pimko, che lo riporta prima fra i banchi di scuola e poi lo colloca come ospite forzato in una famiglia della migliore borghesia “moderna”.
Il protagonista, Giuso o Momo, si ritrova forzato in questo modo nella vita di un preadolescente, fra le burle dei compagni di classe e la seducente vicinanza di una liceale che pare ignorarlo. Miracolo o maledizione, la sua condizione gli permette di addentrarsi ancora una volta nelle angustie adolescenziali con il piglio anarchico e fiammeggiante del profanatore, ma anche con la visione chiara e allucinata del cronista.
Il suo è un destino comune, una tragedia generazionale tutt’altro che superata per i millennial di oggi, che ripercorrono, quasi un secolo dopo, le stesse peripezie interiori del giovane Gombrowicz, sospesi come lui nello stadio larvale fra la fanciullezza onnipotente e la maestosa maturità.
L’autore fa commedia dei nostri incubi, parodia delle nostre paure: tutto cospira a semplificare, ridurre, rimpicciolire. Non si è mai abbastanza grandi per prendere il proprio posto nella storia, si è perpetuamente incompleti, informi, non adeguati per farsi mattonella standard e reggere con gli altri consimili il peso del mondo e delle sue costruzioni artificiose.

Ferdydurke – parola inesistente e proprio per questo perfetta incarnazione dello spirito del libro – si dimostra ancora oggi di un’agghiacciante attualità. Ci deride, ancora una volta, e ci obbliga a guardarci senza manierismi, con gli occhi spietati del comico disilluso, del pagliaccio triste.
È satira, certamente, eppure è anche un dramma venato di erotismo, ricco di suggestioni che scorrono da una pagina all’altra come in un gioco di richiami: le fissazioni dei protagonisti, la loro perenne tensione per evadere dal ruolo che la società vuole imporre a tutti, la tensione sessuale che si crea fra gli opposti disegnati apposta per detestarsi.
La storia di Giuso è però, sopra ogni altra cosa, un discorso sulla forma: quella esteriore, decisa dagli altri e dalle loro aspettative, e quella interiore con cui ognuno conforma e cerca di dare un ordine alla propria essenza ultima. La forma è un pungolo costante, un ideale inarrivabile cui il romanzo rinuncia da subito: la sua struttura sgangherata, volutamente frammentata e informe, sembra voler fuggire alle pretese di un sistema collaudato e alle sue convenzioni. Dopo tutto si parla di regressione, di ritorni assurdi, è normale che vi sia disordine.
La trama procede così fieramente caotica e lacunosa, a singhiozzo, inceppandosi e ripartendo come un vecchio motore, ora con brusche accelerate, curve a gomito, storie che si sviluppano e di colpo cessano di esistere, ora con divagazioni e preludi farinosi che galleggiano fra le pagine come fantasticherie partorite in bolle di sapone, pronti a scoppiare nel nulla.

Dunque ritornano innocenza ed esperienza, ma non come in Blake. Ogni parte si frammenta in nuovi schieramenti contrapposti, destinati a scontrarsi a suon di smorfie o prevaricazioni d’altra natura: giovani e vecchi, moderni e antiquati, innocenti e smaliziati, ogni divisione è un pretesto per aggiungere decorazioni e orpelli inutili a quella forma inseguita e odiata che fa da sfondo all’intero romanzo.
Non ci si può dunque stupire di fronte agli eccessi e alle iperboli incontrate dal protagonista, nella sua odissea dalla scuola alla casa dei moderni borghesi fino alla tenuta polverosa dei nobili di campagna: come sempre in Gombrowicz le idee prevalgono sul contenuto. Gli espedienti narrativi traboccano oltre la portata del realismo per la forza sommersa e quasi invisibile delle ossessioni che stanno dietro alla psicologia di ogni personaggio, creano l’assurdo, costruendo disagio e diletto in egual misura.
Ferdydurke è delirio scolastico, febbre giovanile, ma è anche un’invettiva organizzata contro tutto ciò che funge da mascheramento dentro la società per celare la vera natura delle cose: dall’etichetta campagnola, degna di vecchi sarmatisti, ai dogmi della cura del corpo gridati dall’America e dalle sue mode colorate, ogni precetto e ogni bandiera diviene un filtro per deformare la realtà.
È solo la condizione di “bambino di ritorno”, la coesistenza in un solo corpo di infanzia e maturità, che consente al protagonista di spiare la verità dal buco della serratura con una sottile vena di perversione, perché la vera perversione è proprio il voler vedere, sapere audere, conoscere la vera realtà delle cose dietro la patina piatta della forma e delle norme sociali.
Accoppiamenti giudiziosi
Un’opera d’arte in particolare si collega alla regressione nell’infanzia di questo romanzo di culto: Play-Doh di Jeff Koons.
In questa mastodontica installazione, alta più di tre metri, l’artista statunitense si muove anch’egli a ritroso nel territorio ignoto e fecondo della fanciullezza e lo fa con un materiale familiare e intrinsecamente creativo: il play-doh.
Sinonimo di manualità, di istintiva creazione artistica, questa sorta di plastilina – come i suoi fortunati succedanei – diventa nel gigantesco lavoro di Koons tanto un tributo all’infanzia quanto una burla, nel solco dell’eccesso e del kitsch che contraddistinguono lo stile di questo celeberrimo artista.
Ponendosi come simbolo di sintesi suprema di forme e colori contrastanti, questa catasta di corpi di alluminio travestito da plastilina da un lato si prende gioco della serietà del mondo artistico, dall’altro vuole porre al centro del processo creativo proprio i materiali primigeni con cui ognuno dà sfogo alla propria creatività: come in Ferdydurke, l’obiettivo è quello di disgregare la formalità per risalire all’autentica essenza di tutte le cose.
In questo senso, il play-doh si rivela come la perfetta celebrazione dello spirito di Gombrowicz: è informe, caotico e ridicolo, eppure proprio per questo è autentico e privo di mistificazioni. Non ci sono partiti e consorterie di fronte alla sua purezza di colori sgargianti che ancora rifiutano di mescolarsi nel grigiore della vita adulta: è in potenza qualsiasi cosa e proprio per questo ha una qualità superiore a qualunque opera già compiuta, indirizzata verso una forma di maturità.
Come nei due intermezzi inseriti da Gombrowicz nella storia di Giuso/Momo, anche per Koons ogni cosa è “foderata di infanzia”, è assurda e perfetta e forse nasconde, nell’intersezione nascosta di tutti gli opposti, un nocciolo duro e chiarificatore, una chiave per toglierci di dosso una volta per tutte la forma che la società cerca disperatamente di imporci.
