Per la teoria pubblicistica lo Stato si compone di tre elementi: un territorio, dei cittadini, una sovranità. Per Angelica Gorodischer, longeva visionaria argentina lodata fra gli altri da Ursula K. Le Guin, uno Stato si compone essenzialmente di storie.
Il suo romanzo di racconti, Kalpa Imperial (in Italia Grazie a Rina Edizioni), realizza questo complesso arazzo di voci grazie allo stratificarsi di grida del mercato, visioni, leggende, invenzioni. Nelle sue pagine, la prodezza masticatoria dei cantastorie rielabora e rifinisce frammenti di piccole storie sino a creare la continuità necessaria – da un punto di vista spaziale e temporale – per tenere unita la furiosa molteplicità dell’Impero più vasto che sia mai esistito.
L’Impero senza nome, accompagnato da una teoria di sovrani più o meno legittimi, è incompatibile con l’idea stessa di confine: non esistono limiti alla sua esistenza sovrumana, dal selvatico sud alle città termali, dalle epoche grigie della stagnazione a quelle rosso sangue delle guerre civili. L’impero esiste, semplicemente.

Ne parlano i menestrelli alla gente comune – ai lettori sorpresi con questo libro fra le mani – inventando o ricucendo storie sfilacciate dal tempo, colmando i buchi con digressioni furibonde, lasciando gemmare dal tronco principale della Storia la forza vitale e selvaggia delle narrazioni popolari, vicende di eroi e briganti, rivoluzioni e malattie.
L’Impero in fondo è un leviatano, un organismo vivente con la sua fisiologia sconosciuta e le sue patologie evidenti: un mero susseguirsi di eventi non basterebbe a cogliere il tumulto della sua crescita o le sfumature della sua ricchezza culturale.
Servono uomini acuti e ingegnosi, eventi bizzarri, donne capaci di farsi strada dalla miseria al trono più ambito del mondo per rendere in un sola occhiata la magnificenza di un’istituzione e delle sue componenti dissonanti.
L’Impero cresce e si rinnova così come i suoi miti fondativi: quelle di Gorodischer sono storie che recuperano l’eco distorta delle fiabe per parlarci di gente comune, mercanti ambiziosi e medici sapienti, sullo sfondo di un tempo sospeso che sembra non conoscere l’idea di futuro.
Ogni cosa, come nelle migliori favole, avviene in un passato invadente che permea la realtà con la patina eterna dell’appena trascorso: si appiattiscono secoli in un battito di ciglia, le epoche si incollano alle dinastie e ai vizi dei loro regnanti immortalati in soprannomi crudeli. Dopo tutto, le storie sono eterne, come l’Impero.
Anche se l’Impero in questione non esiste.

Accoppiamenti giudiziosi
L’espediente narrativo di Gorodischer, quello della narrazione corale di menestrelli e trovatori, avvicina il suo lavoro a qualcosa di artigianale e collettivo: la sua voce univoca di sdoppia, diverge, diventa presto quella dei diversi cantastorie che si affannano nelle piazze per declamare il loro sapere inestimabile. Più degli eventi è importante il metodo per tramandarli.
Allora la storia si compone, un pezzo alla volta, affiora dalle pagine il ritratto infuocato e brulicante di un leviatano mutevole e infinito. Le storie minuscole convergono, trovano sintesi nelle differenze, si intonano a un lavoro di più ampio respiro: dalla fiaba si affacciano la storiografia, il gossip, l’orrore. L’Impero è vasto, dopo tutto, può contenere ogni genere.
A lettura ultimata si prova il desiderio di andare avanti, continuare a esplorare questo spazio narrativo sconfinato, forse unirsi alla folla di cantori che declamano le bellezze e le atrocità di questo Stato formidabile.

Come l’arte americanissima della trapuntura, così vicina agli arazzi medioevali eppure così lontana dalla loro austerità, anche le storie di Gorodischer sembrano far tesoro degli scampoli e dei ritagli recuperati chissà dove: creano unione e armonia eppure continuano ad espandere i confini delle vicende narrate aggiungendo nuovi riquadri.
Il quilting nasce anch’esso dal basso, dall’artigianato e dai mercati che sono fucine di racconti e origine di miti: unisce la necessità e la creatività a un bisogno più sottile, quello di tramandare e di raccontare qualcosa.
Lo sanno bene gli artisti rimasti innominati che negli anni hanno confezionato patchwork quilt con materiali di recupero per dare materialità a una storia che avevano dentro, per commemorare un evento, per cristallizzare uno stato d’animo, una coincidenza, una lotta comune.
Nel solco della tradizione afro-americana, Rosie Lee Tompkins è riuscita a trovare un significativo equilibrio fra improvvisazione e uso del colore, facendo tesoro dei tessuti trovati nei mercatini per cucire insieme le memorie collettive del proprio paese e della propria comunità.
Così non ci si sorprende, davanti ai suoi lavori, quando si intravedono fra toppe colorate i volti di Kennedy e di Gesù Cristo: l’arte del quilting è una perpetua addizione, dopo tutto, è un lavoro che non va a sottrarre ma a sovrapporre, a ispessire una memoria comune.

Che riscaldi, che riempia lo sguardo, che abbia in sé una compiutezza superiore al valore dei singoli elementi che la costituiscono: questa è l’anima profonda e immateriale di ogni opera di Rosie Lee Tompkins.
È anche lo spirito che si cela dietro i racconti di Angelica Gorodischer, che spaziando dal fantastico al prosaico delle narrazioni popolari riescono ad elevarsi verso un’unitarietà maestosa, appunto imperiale.
Non c’è rigore, nel lavoro parallelo di Gorodischer e Tompkins: c’è solo la volontà di tramandare qualcosa che riesca a staccarsi dalle rispettive autrici, a proseguire oltre le loro mani d’artista e il loro sguardo affamato, a germogliare negli osservatori per renderli parte di una storia più grande, non scritta, ancora più meravigliosa.
